Inchieste

Isis e traffico di reperti, distruzione di opere artistiche e musei. Quanto guadagnano e cosa si distrugge?

Un calcolo preciso è impossibile, ma secondo le stime più allarmistiche, potrebbe trattarsi addirittura della la seconda fonte di finanziamento dei Jihadisti

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reperti archeologici isisI tesori inestimabili della storia della Siria – i castelli dei crociati, le antiche moschee e chiese, i mosaici romani, la rinomata ‘città dei morti’ nel nord e i musei pieni di reperti – sono caduti nelle mani dei trafficanti di archeologia, hanno subito l’opera di distruzione da parte dei ribelli come delle milizie governative, pian piano che la guerra ha coinvolto tutto il Paese.

Mentre i monumenti ed i musei delle due grandi città, Damasco e Aleppo, sono stati ampiamente risparmiati, le cronache da tutta la Siria descrivono danneggiamenti irreparabili a siti archeologici che non hanno eguali nel Medio Oriente. Persino il magnifico castello di Krak dei Cavalieri – descritto da Lawrence d’Arabia come ‘forse il castello meglio conservato e più mirabile al mondo ‘, che neppure il Saladino era riuscito a catturare – è stato bombardato dall’esercito siriano, con il conseguente danneggiamento della Cappella crociata al suo interno”.

 

 

La sconsolata descrizione della rovina del patrimonio artistico della Siria è dettagliata da Robert Fisk, reporter britannico esperto di conflitti nel Medio Oriente. Come sottolinea Fisk, la distruzione, in questi mesi, nel Paese mediorientale è causata dalla guerra fra i molti gruppi ribelli e l’esercito di Assad. Non bisogna dimenticare però come l’iconoclastia rappresenta uno dei tratti distintivi dell’azione dell’Isis (acronimo ormai divenuto di senso comune per la sigla inglese Islamic State of Iraq and Syria).

 

L’autoproclamato califfato, che si estende su un territorio difforme e dai confini mobili in Iraq e Siria, ha spettacolarizzato quella tendenza iconoclasta presente nell’estremismo islamico fin dall’inizio dal 2003, quando i Taliban afghani distrussero i giganteschi Buddha della valle di Bamiyan, proprio mentre contemporaneamente - subito dopo la caduta di Saddam Hussein - cominciavano anche i saccheggi di beni culturali e archeologici in Iraq, in quest’ultimo caso ad opera di sciacalli e tombaroli piuttosto che di estremisti religiosi.
Emblematicamente nella primavera scorsa, i media hanno fatto rimbalzare in tutto il mondo le scene di distruzione di statue e opere di inestimabile valore prima a Mosul e poi nella vicina Nimrud, entrambe nel nord dell’Iraq, in una zona controllata dai miliziani jihadisti.

 

 

La vicenda più clamorosa, però, riguarda le rovine della città di Palmira, conquistata dai miliziani dell’Isis lo scorso maggio. Centro carovaniero ad est di Damasco, sorto nei pressi di un’oasi lungo la Via della Seta, nei suoi templi, nei colonnati e nel grande teatro è visibile l’impronta architettonica romana. Conservata in modo straordinaria dal clima del deserto, la città è stata per anni un’importante meta turistica. Fino allo scoppio della guerra civile, in corso ormai da oltre quattro anni. E fino alla simbolica distruzione dei suoi monumenti, culminata ad agosto con la demolizione prima del Tempio di Baalshamin, poi di quello ancora più grande di Baal (in un primo momento smentita, e poi confermata dalle riprese di immagini satellitari diffuse dall’Onu). Le devastazioni di fine agosto sono state precedute dalla violenta esecuzione dell’anziano Khaled Asaad, sovraintendente archeologico degli scavi Palmira.


L’azione dell’Isis contro i beni archeologici è stata documentate dall’Unesco. Restando in Siria, oltre alla già citate Palmira e al castello dei Cavalieri di Krak, hanno subito danni l’insediamento greco di Apamea, le rovine archeologiche di Mari e il monastero cristiano di Mar Elian, e corrono rischi i centri storici di Aleppo della capitale Damasco. In Iraq l’esplosivo ha colpito anche la greco-romana città di Hatra, le antiche città assire di Nimrud e Ninive, i musei e biblioteche di Mosul, dalla moschea del profeta Yunus al monastero cattolico di Mar Benham.

 

 

ICONOCLASTIA E TRAFFICO DI REPERTI ARCHEOLOGICI

Non tutto però viene distrutto. Esiste anche il fenomeno del traffico di reperti archeologici, attività che genera non pochi profitti alle truppe del Califfo Al Baghdadi. Secondo l’archeologo Michael Danti, direttore del Cultural Heritage della Boston University, l’Isis in realtà sa bene come muoversi: “Distruggono quello che non si può vendere”, dice al quotidiano statunitense online IBTimes, “mentre vendono quello che si può trasportare più facilmente”. Insomma, l’idea della furia distruttrice, legata certamente all’ideologia degli estremisti, andrebbe almeno rivista alla luce dell’interesse economico dell’Isis nel vendere le opere.


Dietro al traffico, esiste un’ organizzazione ben articolata. L’Isis non agisce direttamente sui siti archeologici, ma si affida alla competenza di persone che in passato hanno già scavato, magari anche prendendo parte a missioni internazionali. Spiegava il New York Times già nel settembre 2014 basandosi su fonti locali siriane e irachene, come i miliziani si limitano a imporre ai “tombaroli” una tassa che oscilla tra il 20 (per esempio nell’area di Aleppo) al 50% (a Raqqa), anche a seconda di quanto il materiale reperito è prezioso e vendibile. L’imposizione di questa imposta, chiamata khums, che consegna all’Isis il controllo finanziario di tutte le operazioni nel territorio controllato, è legittimata dalla legge islamica.

 

 

Quanto frutta il traffico di reperti? Un calcolo preciso è impossibile, ma secondo le stime più allarmistiche, potrebbe trattarsi addirittura della la seconda fonte di finanziamento dei jihadisti, seconda solo ai profitti del petrolio. Solo per farsi un’idea, uno studio Onu pubblicato nel novembre 2014 valuta come l’Isis ottenga almeno 1,65 milioni di dollari al giorno dal greggio e può arrivare ad avere 45 milioni in un anno grazie ai riscatti. Il ricavato del traffico di reperti sarebbe quindi tra questi due estremi. Il quotidiano britannico Guardian riporta come la vendita di opere dal sito di al-Nabuk (ovest di Damasco) avrebbe reso da sola 36 milioni di dollari.

Altri studiosi contestano queste numeri, parlando di quantificazioni impossibili e di esagerazioni allarmistiche da parte di alcuni osservatori. Cifre a parte, una tesi originale sul vero motivo delle devastazioni dei beni archeologici mette in stretta correlazione traffico di reperti e iconoclastia.

“Dopo aver venduto sul mercato europeo gli oggetti razziati dai siti, la distruzione permette di nascondere l’enormità della spoliazione”, spiega Joanna Farchakh, archeologa Franco-libanese che da anni lavora alla catalogazione delle antichità razziate tra Siria e Iraq. “Una volta che si fa saltare un sito, nessuno saprà mai cosa vi è stato rubato – né cosa è stato distrutto”.

Andrea Valdambrini

di Andrea ValdambriniGiornalista e reporter. Collaboratore de Il Fatto Quotidiano