Inchieste

I falsi miti della mafia e dell’anti-mafia. Dieci anni di Gomorra e 24dalla morte del giudice

Miti: Che ha fatto Saviano? Giovanni Falcone stava con Saviano?

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“Forse l'abbiamo un po' mitizzata. Ma adesso non vorrei dire che ci ha un po' deluso, però sicuramente è cambiato”.
Con queste parole Corrado Augias iniziava l'intervista a Giovanni Falcone del 12 gennaio 1992. E quattro mesi prima di essere ucciso, Falcone doveva scusarsi “di essere ancora vivo”, rispondendo alle continue critiche che avevano finito per trasformare il talk show Babele in una sorta di processo al nemico numero uno della mafia.
“In questo paese per essere credibili bisogna essere ammazzati”
aveva detto amaro il giudice. Aggiungendo subito dopo: “E se ti mettono una bomba sotto casa e la bomba non esplode, è colpa tua che non l'hai fatta esplodere”.

Già. Aveva la colpa di essere ancora vivo, il giudice Falcone. Ancora per poco, però: 144 giorni dopo, infatti, Giovanni Falcone sarebbe diventato un eroe, un simbolo, un'icona, una foto da appendere sopra la scrivania come il Crocifisso, come Che Guevera. Un santo da venerare, che non disturba perché sta zitto, non parla più, non contraddice, non prende posizione, non dice cose scomode, non ti mette in discussione e ti permette di associarlo a luoghi comuni e frasi fatte. Non devi ascoltarlo, non devi capirlo, non devi conoscerlo: basta sventolarlo, per stare dalla parte dei buoni e mettersi la coscienza a posto.

Ma allora no, Falcone dava ancora fastidio. Perché era vivo: parlava, scriveva, criticava e argomentava. Non a caso in quella famigerata intervista, non c'era una domanda che non fosse un'accusa più o meno velenosa, più o meno velata: “Il suo libro vende bene” fa Augias. “Da quando sta al ministero e scrive editoriali sulla stampa le sue posizioni sembrano più morbide, più sfumate”. “Lei scrive cose gravi, dimostra una profonda stima intellettuale nei confronti della mafia”. “Lei ha detto che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché fortunatamente lei è ancora con noi, chi la protegge?”. E soprattutto: “Perché un giudice deve scrivere un libro? Non sarebbe meglio se un giudice operasse secondo giustizia e tacesse?”.

 

 

Nel 1992 la “colpa” del più grande simbolo della lotta antimafia - un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita a studiare il fenomeno e a catturare e processare i mafiosi - era il fatto di aver scritto un libro.

Ventiquattro anni dopo, il più grande simbolo della lotta alla mafia è un giovanotto che in vita sua ha fatto solo quello. Ha scritto un libro. E basta. Ma gli è bastato questo per diventare un eroe, un santo, un martire vivente.

Qualcuno dirà: e meno male. Abbiamo imparato la lezione, adesso gli eroi li riconosciamo subito, li sosteniamo, li proteggiamo. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Davvero possiamo pensare che rispetto al 1992 la nostra coscienza civile sia maturata? E che non sia, invece, esattamente il contrario?

 

 

Nel 1991 Maurizio Costanzo nel suo Show ospitava Giovanni Falcone; quindici anni dopo faceva i trenini con Costantino Vitagliano. Oggi sua moglie ad Amici ospita Roberto Saviano. Il cerchio si è chiuso: siamo passati dall'intrattenimento che si fa antimafia all'antimafia che si fa intrattenimento.


Giovanni Falcone non era un eroe, non era un simbolo, non era un santo: era un uomo a servizio di un causa. Indagava sui mafiosi, li processava e intanto cercava di far capire agli italiani cosa fosse la mafia e come si combatteva. E veniva criticato moltissimo – a volte anche ferocemente (pensiamo alla querelle con Leoluca Orlando) – e forse anche giustamente. Perché era un uomo che faceva delle scelte, e ogni scelta è discutibile. In fondo le pesanti critiche che riceveva erano almeno in parte frutto di quella coscienza critica che lui stesso aveva contribuito a creare negli italiani.

Non predicava, Falcone. Spiegava, argomentava. Invitava a liberarsi dei luoghi comuni, a non parlare per frasi fatte, e a capire che la mafia non è una piovra da guardare in televisione, ma un modo di vivere e di pensare che vive in ognuno di noi. Alla ragazza che gli chiedeva “è vero che la mafia è arrivata a Roma?” rispondeva: “Cerchiamo di sfuggire dagli schemi mentali e parliamo più concretamente delle cose”. “Dobbiamo riconoscere che la mafia ci rassomiglia” aveva aggiunto. “Rassomiglia ai palermitani, ai siciliani, agli italiani, agli uomini in genere”. I mafiosi non sono dei marziani, sottolineava. Sono uomini come noi, e tutti noi siamo un po' mafiosi.

Perché la mafia non è solo spari, traffico di droga, teste di cavallo mozzate sotto le lenzuola: ogni volta che vogliamo mettere a tacere il dissenso, siamo mafiosi. Ogni volta che cerchiamo di creare una domanda per fornire un'offerta (e non viceversa) siamo mafiosi. Ogni volta che valutiamo qualcuno o qualcosa in base all'amicizia anziché al merito, siamo mafiosi. Ogni volta che cerchiamo scorciatoie, che ci raccomandiamo a qualcuno, che chiudiamo gli occhi di fronte a un sopruso, che ci facciamo la legge per conto nostro, siamo mafiosi. E allora per combattere la mafia non basta certo attaccarsi la spilletta di Falcone o di Saviano.

 

 

Ed ecco allora che in un'epoca in cui la mafia non uccide più (e quando la mafia non uccide significa che non ne ha bisogno perché governa indisturbata) in un'epoca in cui da tempo non è più solo un fenomeno meridionale ma fa silenziosi affari in tutta la penisola, in quest'epoca in cui le cosche mafiose sono riuscite ad infiltrarsi anche nella stessa antimafia, in quest'epoca così ambigua e mafiosa, ecco arrivare un'eroe a buon mercato che si offre al culto popolare rilasciando generosamente patenti antimafia a prezzo modico.

Il recente, squallido caso di Pino Maniaci ha dimostrato come un giornalista antimafia possa usare le intimidazioni subite e la solidarietà mediatica per il proprio tornaconto personale. Ma al di là dei suoi comportamenti discutibili, Maniaci stava comunque in prima linea nella lotta alla criminalità, con le inchieste della sua TeleJato. Il paradosso di Saviano, invece, è che non ha mai fatto giornalismo antimafia. Tutto ciò che ha fatto Roberto Saviano è stato scrivere un romanzo. Poi uno spettacolo teatrale tratto dal romanzo. Poi un film tratto dal romanzo. Poi una serie televisiva tratta dal romanzo. Poi il seguito della serie televisiva tratta dal romanzo. E' un campione di marketing più che di impegno civile.


Niente di tutto ciò che ha fatto negli ultimi dieci anni ha minimamente dato fastidio alla camorra, anzi. Il film – come è noto – è stato realizzato con il “consenso” delle cosche e diversi camorristi nel cast, mentre la serie televisiva è stata presa addirittura come modello da molte bande criminali. Nulla di strano: sappiamo quanto Bernardo Provenzano amasse Il Padrino e lo stesso Michele Placido ha spiegato che raramente gli arrivarono minacce per La Piovra. I mafiosi adorano specchiarsi al cinema e vedere coltivato il loro mito.

 



Quello che è strano, invece, è che questo scrittore di romanzi, cinema e fiction sia diventato un eroe. E che questo “eroe”, poi, abbia passato dieci anni non a fare conferenze nelle scuole, scrivere inchieste sui casalesi, raccontare la sua esperienza, ma a riempire programmi televisivi con i suoi sermoni, esternando come Fabio Volo (ma con assai meno umiltà e consapevolezza e simpatia di Fabio Volo), dissertando di di tutto e di più, pontificando di argomenti di cui non sa nulla, diventando opinionista universale e sprovveduto tuttologo.

Tra le cantonate più clamorose, le prese di posizione sulla questione palestinese (che gli valsero – tra l'altro - la risposta indignata di Vittorio Arrigoni, uno che poi la vita l'ha persa davvero per la causa in cui credeva) e l'esaltazione di Nicolai Lilin, l'autore di Educazione siberiana, ovvero lo scrittore pallonaro per antonomasia che vanta improbabili trascorsi in una comunità criminale moldava, carcere in Russia, esperienze militari in Cecenia, Israele, Iraq e Afghanistan. E il peggio è che oltre a prendere per oro colato tutte quelle che sono probabilmente clamorose bufale dello scrittore della sua stessa età e analoga carriera, Saviano arriva persino ad esaltare la criminalità organizzata: “Può apparire strano che parlando di una comunità criminale si parli di onestà; noi abbiamo imparato a dimenticare che un codice etico condiviso possa esistere anche al di fuori della società civile. Tra gli Urka non si stupra, non si fanno estorsioni, non si fa usura. Si può rapinare e uccidere, ma solo in presenza di un valido motivo”, “sono regole che seppur calate in un contesto discutibile hanno profonde radici morali”.

 

 

Eppure Saviano è sacro e intoccabile: è più facile sentire parlare male di papa Francesco, che di Saviano. Appena provi a criticarlo, ti dicono subito: “Ma povero, prova tu a fare la sua vita da recluso!”. Già perché Saviano c'ha la scorta. E questo ne fa indubitabilmente un eroe. “Allora anche io sono un eroe, visto che ho la scorta” ha commentato una volta Vittorio Sgarbi. E possiamo allora dire davvero di avere un'intera casta politica di eroi. Il problema è che l'immaginario collettivo tende a confondere la vita di un uomo sotto scorta con quella di un testimone di giustizia.
Un testimone di giustizia è costretto a lasciare la sua terra e tutti i suoi affetti, a vivere sotto falso nome, a crearsi una nuova identità. E se va in televisione, ci va con il volto oscurato e la voce distorta, come è accaduto a Giuseppe Carini, uno dei ragazzi di don Puglisi, che il prete ucciso nel 1993 tirò fuori dalla strada e da futuro mafioso ne fece un combattente della mafia.

“Sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi” diceva Brecht. E l'Italia, non a caso è un paese tanto affamato di eroi quanto allergico all'anticonformismo. E' un popolo che vuole essere rassicurato. E Saviano è l'eroe perfetto per un popolo da rassicurare: perché ci libera da qualsiasi responsabilità. Grazie a Roberto essere antimafia non è pericoloso né difficile: è trendy e politicamente corretto. Chiunque può dire di lottare contro la mafia, anche Totò Riina. Gli basterebbe scrivere un pizzino con scritto “Io sto con Saviano” e anche lui – magicamente – passerebbe dalla parte dei buoni. 

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.