Inchieste

Movimento 5 stelle. Le critiche e le vittorie di un movimento sempre più importante e sempre sotto accusa

Il 2018 forse l’anno del cambiamento politico. Ora si ammettono gli errori e si prepara la nuova classe politica e dirigente.

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Durante la conferenza stampa del nuovo film di Carlo Verdone, Benedetta follia, il regista viene criticato dai giornalisti per aver mostrato Roma troppo bella.

Perché sia chiaro, che almeno fino al 4 marzo, non si può parlare della Capitale senza dire quanto fa schifo da quando è sindaco Virginia Raggi.
Altro che Oscar: se La grande bellezza fosse stato girato sotto l'amministrazione grillina sarebbe stato condannato a rogo.

Non è più soltanto un dibattito politico: parlare male di Virginia Raggi, nel momento in cui il Movimento 5 Stelle rischia di andare al governo del Paese, è diventato un dovere civico, un dogma laico: Roma fa schifo, quindi i grillini non sanno governare, quindi per carità, il 4 marzo votate qualcun altro: chiunque altro, ma non questi sovversivi capaci solo di criticare e che quando arrivano al potere fanno danni immani. Perché se - Dio non voglia - Luigi Di Maio dovesse diventare presidente del consiglio, il prossimo anno rischiamo di trovarci Spelacchi ovunque.

Già, perché la polemica più feroce che si è riversata sull'amministrazione Raggi negli ultimi mesi, è stata quella sull'albero di Natale di piazza Venezia. Che, a detta di molti, era brutto, bruttissimo, indegno, indecoroso; scandaloso. In compenso l'abito indossato dalla sindaca alla prima dell'Opera era bello, bellissimo; troppo bello, quindi altrettanto scandaloso e meritevole di critiche. Nessuno però ricorda il successo turistico e l’attenzione mediatica riversata anche grazie al simpatico Spelacchio, che oggi in molti rimpiangono.

Chi scrive, lo confessa, non c'è proprio riuscito - attraversando Piazza Venezia - a scandalizzarsi per lo Spelacchio.

Eppure, a leggere i giornali e i commenti sui social, il vero problema dell'Italia è l'albero di Natale di Virginia Raggi, eminente simbolo dei disastri grillini.
Che poi quando vai a parlare con un romano non compromesso con la politica, ti dice che in realtà la Città Eterna è rimasta esattamente come prima. Non è cambiato nulla: i grillini non hanno né salvato né distrutto Roma, come non distruggeranno l'Italia, anzi almeno ci saranno cambiamenti reali.

 

 

 

Eppure, se Silvio Berlusconi la definisce una pericolosa forza “populista, ribellista e pauperista” ed Eugenio Scalfari arriva a dire che preferisce Berlusconi piuttosto che Luigi Di Maio, qualcosa deve pur significare.

 

Significa che forse, nonostante tutto, il Movimento 5 Stelle non è ancora diventato un partito come gli altri: è ancora un corpo estraneo per la classe dirigente, quindi rappresenta ancora un elemento rivoluzionario e potenzialmente distruttivo per un Sistema che si sente sempre più accerchiato.

D'altra parte il nodo principale rimangono quelle alleanze che garantiscono la spartizione della torta e che Grillo continua sdegnosamente a rifiutare.

 

Secondo i detrattori, quel rifiuto impedirà sempre al Movimento di governare, costringendo la sinistra e la destra ad allearsi tra loro alla faccia di qualsiasi coerenza ideologica; ma la verità è che la posizione di Grillo è così odiosa proprio perché mette a nudo la reale natura di quelle che non dovrebbero essere chiamate alleanze ma, per l'appunto, spartizioni.

Se la politica fosse un servizio ai cittadini, l'accordo tra partiti dovrebbe portare al sostegno di un governo composto da personalità competenti a servizio dei cittadini, non ad un governo composto da personalità espressione dei diversi partiti a servizio dei partiti stessi. Non a caso uno dei principi fondanti del Movimento 5 Stelle è che ministri e assessori vengono scelti tra tecnici e non tra dirigenti di partito e le leggi vanno valutate in base al merito e non in base a chi le propone. Se Grillo abdicasse a questo principio demolirebbe vent'anni di lavoro. Perché quello che oggi è il primo partito italiano - non dimentichiamolo - affonda le sue radici negli spettacoli-comizio che il comico genovese ha iniziato a fare negli anni '90, dopo le critiche rivolte alle multinazionali.

 

Il Movimento 5 Stelle rappresenta un caso unico nella storia della politica italiana perché, per la prima volta, non è un partito che è andato a cercarsi gli elettori ma il contrario.

 

 

 

Il partito di Beppe Grillo non spunta come ennesimo simbolo da mettere sulle schede per ragranellare qualche poltroncina e magari fare da ago della bilancia, ma nasce da una lunghissima azione civica iniziata con spettacoli dal vivo nel 1995 e proseguita su internet con il blog (nato nel 2005 e diventato in pochissimo tempo uno degli mezzi di comunicazione più “autorevoli” in Italia), poi sui territori con i MeetUp (che prendono il nome da un social network che serve a organizzare riunioni) nati nel 2006, e dal 2007 con le liste civiche a cinque stelle nei comuni e nelle regioni (vale la pena di ricordare che le stelle stanno per acqua, ambiente, trasporti, sviluppo ed energia) per arrivare infine alla fondazione del Movimento politico nazionale il 4 ottobre 2009, giorno di san Francesco. E non a caso: “Era il santo adatto per un MoVimento senza contributi pubblici, senza sedi, senza tesorieri, senza dirigenti - scriveva Grillo nel 2013 commentando entusiasta l'elezione di Bergoglio - Un santo ambientalista e animalista. La politica senza soldi è sublime, così come potrebbe diventare una Chiesa senza soldi, un ritorno al cristianesimo delle origini”.

 

L'obiettivo, quindi, non è “scendere in campo” ma rivoluzionare la politica riportandola ai valori delle origini, così come il papa argentino cerca di fare con il cristianesimo. E non a caso anche contro Bergoglio è in corso un'azione diffamatoria senza precedenti nella storia della Chiesa: tanto che se la sindaca di Roma è stata attaccata per il suo albero di Natale, il Papa - in modo altrettanto grottesco e ridicolo - è stato attaccato per il presepe di piazza San Pietro, giudicato dai conservatori “omoeretico”.

 

Ora, è evidente che con simili presupposti tradire le aspettative è quasi inevitabile, tanto quanto è ineluttabile la progressiva trasformazione dell'utopia politica in un partito vero e proprio. D'altra parte con le utopie non si governa e lo dimostra la storia dello stesso san Francesco, che al culmine della sua fama si dimise da capo dell'ordine che aveva fondato lasciandolo nelle mani di frate Elia e vedendo trasformare la sua utopia rivoluzionaria in un potentissimo ordine religioso. Un ordine che pure, nonostante il tradimento degli ideali originari, mantiene ancora oggi alcune caratteristiche di anti-potere: basti pensare che a fronte di vescovi, abati e capi di movimenti religiosi che hanno spesso incarichi a vita e status superiori agli altri, ancora oggi il ministro generale dei francescani è in carica appena tre anni e poi torna ad essere un frate qualsiasi (la stessa parola “ministro” ovvero “servo” viene usata da Francesco in contrapposizione a “priore”).

 

D'altra parte in questi cinque anni è cambiato il ruolo stesso rivestito dal M5s in Italia: nel 2013 quello che incornò Beppe Grillo il più importante politico italiano era un voto di protesta: il Movimento 5 Stelle era il partito di tutti gli italiani senza partito, dei cittadini esasperati dai Bersani e dai Berlusconi, che si ribellavano alla politica autoreferenziale e ai giornalisti “equivicini”, e i suoi portavoce erano persone normali che si improvvisavano in politica: un festoso esercito allo sbaraglio che voleva aprire Montecitorio come una scatola di tonno.

 

Oggi i tempi sono cambiati: il Movimento 5 Stelle sta diventando un vero partito, con le sue facce televisive, la sua classe dirigente, le sue regole. E i cittadini che lo votano non vogliono più essere aizzati ma rassicurati. Non a caso al posto del Grillo Parlante, del giullare incazzato che sfotte i politici e manda a fanculo tutti, c'è il “Perfetto Democristiano” in giacca e cravatta: affabile e affidabile, cordiale e diplomatico. Tanto diverso da Grillo quanto frate Elia lo era da Francesco.

 

Anche le primarie per Camera e Senato, rispetto a cinque anni fa, sono cambiate molto: stavolta non basta più entrare, bisogna anche governare e non ci si può permettere di lasciare spazio a incompetenti, arrivisti o indagati. Per questo la selezione dei candidati è diventata molto più rigida anche se - e questo è fondamentale, perché resta un caso unico - rimane aperta a tutti i cittadini, senza alcun reclutamento dall'alto e senza corsie preferenziali per i militanti.

 

 

Nel 2013 per candidarsi come parlamentare del Movimento 5 Stelle bastava essere registrato ad un sito internet, e non c'era nemmeno bisogno di farsi avanti: ti arrivava direttamente una mail alla quale dovevi semplicemente rispondere sì o no. Quest'anno sia candidarsi sia votare è diventato molto più complesso: innanzitutto si è passati dalla registrazione a un portale all'iscrizione a un'associazione. E' interessante anche la gestione della campagna elettorale, che tende a scongiurare ogni forma di personalismo. A tutti i candidati, poi, viene chiesto preventivamente di inviare il certificato penale e il certificato di carichi pendenti e di comunicare eventuali indagini a proprio carico. Il candidato deve inoltre sottoscrivere lo Statuto del Movimento e una serie di regole che impongono – tra l'altro – le dimissioni da parlamentare per chi lascia il Movimento, l'impegno a non farsi chiamare “onorevole” o “senatore” e quello a votare la fiducia a un governo a guida grillina. Nessun vincolo, invece, a votare le proposte di legge seguendo le indicazioni del capo politico. Ovvero Luigi Di Maio; che è poi al tempo stesso la pietra angolare e la fortuna del nuovo corso.

 

I giornali gli affibbiano il ruolo di nuovo leader e lui ci sta. D'altra parte viviamo nell'epoca delle tifoserie e della personalizzazione della politica, e inevitabilmente tanti italiani voteranno il M5s per simpatia o stima verso Di Maio. Che come leader, invece, sta crescendo e dimostrando di esserlo. Potrebbe anche essere rassicurante per chi lo considera un giovanotto senza arte né parte, uno studente fuori corso che non ha mai lavorato in vita sua (del resto in Italia a 26 anni, appena finita l’ università chi riesce a lavorare?); insomma un giovane politico professionista che appare, a volte, quasi speculare a Matteo Renzi e in totale antitesi con il fondatore. Non a caso la sua incoronazione ha creato molte polemiche anche tra gli esponenti del Movimento che avrebbero preferito Alessandro Di Battista; il quale, a sua volta, si è tirato fuori del tutto ma comunque aiutando Di Maio ed il Movimento.


Luigi Di Maio ha studiato e si è preparato; scelto perché capace di interpretare meglio di tutti il ruolo di portavoce del Movimento in una fase così delicata, e in grado tanto di guadagnarsi la fiducia di Grillo quanto la simpatia degli italiani, in attesa dell’elezione presidente del Consiglio.
Luigi Di Maio dovrà però farsi da parte alla fine della prossima legislatura.

 

E qui entriamo nell'ultimo e più delicato dei nodi: il vincolo dei due mandati, che impedisce di creare professionisti della politica e favorisce il rinnovo della classe dirigente, ma che è già adesso uno dei temi più discussi all'interno del Movimento stesso.

 

 

Se mantiene l'idea della politica come servizio e scongiura il carrierismo, infatti, non manca di controindicazioni. Tra i casi più clamorosi c'è quello di Fabio Fucci, sindaco di Pomezia: entrato in consiglio comunale con il Movimento 5 Stelle, ha svolto appena un anno di mandato perché il Comune è stato commissariato. Alle elezioni successive Fucci è stato eletto sindaco e ora, dopo appena 6 anni, sarebbe costretto ad abbandonare il servizio pubblico, esattamente come accadrà a Virginia Raggi e Chiara Appendino al termine del loro primo mandato da sindaco (ma secondo in totale).


Fucci, però, forte del consenso dei cittadini, ha deciso di lasciare il Movimento e candidarsi con una lista civica. A Pomezia si ripeterà così il paradosso di Parma: il Movimento 5 Stelle che fa la guerra a un sindaco grillino, uscendone forse sconfitto.

 

Un modo per uscire dall'impasse, in realtà, il M5s ce l'avrebbe: ricordarsi di non essere un partito ma un movimento civico, che come obiettivo ha un buon governo e non la presa del potere, e tenere presente che le cinque istanze che le stelle rappresentano sono più importanti del logo in cui sono inserite. E allora laddove c'è un sindaco che quelle cinque stelle le rispetta, anche senza bandiera, il Movimento non dovrebbe candidarsi lasciando che i propri attivisti sostengano chi lo merita.

 

Perché se il Movimento 5 Stelle non vuole perdersi, non deve diventare un partito, un'ideologia, un gruppo di potere, ma restare un'ansia di rinnovamento, un modo sano di vivere la politica.

Non a caso quando a Beppe Grillo chiesero a quale percentuale volesse arrivare, lui rispose: “Al 100%. E allora ci scioglieremo, perché avremo esaurito il nostro compito”.

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.