Spettacolo

Internet: privacy e diritto all’oblio. Google condannata in Spagna

Pedinati e catalogati, ogni nostro movimento in Rete viene tracciato, studiato, siamo raggiungibili ovunque.

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Quando si parla di Internet e di futuro digitale si finisce sempre per parlare di privacy e di diritto alla riservatezza. E così il mondo Web si divide tra chi è favorevole a un maggiore investimento nella sicurezza dei dati e chi, invece, punta a spazi più ampi di libertà. Il problema, come sempre, è quello di trovare una via di mezzo che non trasformi il World Wide Web in una rete di sorveglianza. Il confronto è aperto. Intervengono esperti, sociologi, guru della comunicazione. Mentre i grandi gruppi corrono ai ripari.

Vero è che ogni nostro movimento in Rete viene tracciato, messo a fuoco, studiato. Obiettivo: un controllo attento e certosino sugli utenti, raggiungibili ovunque. La tracciabilità inizia dal telefonino. Proprio con lo smartphone, ma anche con gli altri device mobili, siamo sempre connessi, e dunque trasparenti, immersi in uno spazio dove oramai non è più solo questione di dati e di numeri, sfruttati dai colossi del Web in particolare per fini pubblicitari.

Off e online siamo diventati esseri trasparenti, inseriti in un grande database che conosce tutto di noi: azioni, movimenti, preferenze. Pedinati e catalogati, inseriti nei grandi archivi cloud, dove è possibile estrarre il nostro dna digitale, o quello che Derrick De Kerckhove, allievo di Marshall McLuhan, definisce inconscio digitale. Forse per l’inconsapevolezza di chi percorre le strade della Rete senza rendersi conto di ciò a cui va incontro.
Insomma, non siamo più indipendenti ma immersi in un liquido multimediale dove tutti possono accedere. Si tratta di un processo fisiologico che presuppone, tuttavia, nuovi comportamenti, regole, etica.

A cercare di dirimere almeno una delle questioni più dibattute, quella sul diritto all’oblio, ci ha pensato la Corte Ue con una sentenza che apre nuovi scenari. Il caso si riferisce a una controversia fra Google e l’Agenzia spagnola per la protezione dei dati. Di fatto la Corte ha deciso che anche i motori di ricerca sono responsabili dei contenuti, e quindi delle informazioni veicolate sui loro portali, e non solo i siti web indicizzati per ottenere i risultati delle ricerche. Una sentenza considerata storica perché sono proprio i motori di ricerca il primo punto di accesso al trattamento delle informazioni che circolano in Rete. E’ per questo che grandi aziende come Google dovranno rispettare la normativa sulla protezione dei dati personali e eventualmente rispondere alle richieste che arrivano dagli utenti, come quella di non associare il proprio nome o altri dati personali alle informazioni che vengono raccolte.

 



Un freno all’invadenza del Web, in particolare per quanto riguarda le notizie non recenti che, anche se all’epoca vere, dovranno essere cancellate dalla grande memoria. Proprio come il caso dell’avvocato spagnolo Mario Costeja. Nel 2009 si era accorto che, digitando il suo nome su Google, veniva fuori una nota del 1998, pubblicata sul sito del quotidiano La Vanguardia ,nella quale venivano elencati debiti o presunti tali attribuiti allo stesso avvocato. Quindi la decisione di ricorrere alla giustizia, con la richiesta di cancellazione di quell’articolo da parte del motore di ricerca che lo aveva archiviato nella sua memoria, nascosto, ma non tanto, tra bit e algoritmi vari. I tempi della giustizia, si sa, sono lunghi, e non solo in Italia. Ma dopo una attenta valutazione del caso è finalmente arrivata una sentenza che da oggi sarà presa come esempio per la soluzione di casi analoghi.

Insomma, un limite al potere acquisito in particolare da Google, il cui algoritmo ha dettato legge per tanto tempo. Ora si tratta di vedere quali saranno le conseguenze della sentenza e le sue implicazioni.

Il primo effetto è l’iniziativa che arriva proprio da Google, che ha annunciato di aver messo sul web un modulo per chiedere la rimozione dei risultati del motore di ricerca che non si ritengono opportuni. Inoltre è allo studio la creazione di un comitato consultivo di esperti che, consultati da Google, dovrà analizzare attentamente questi temi. Non sarà facile, tenendo conto che il meccanismo di Internet è molto complesso. La preoccupazione, afferma Larry Page, amministratore delegato del colosso delle ricerche, è che “il diritto all’oblio rischia di danneggiare la prossima generazione di start-up sul Web e di rafforzare la mano dei governi più repressivi che cercano di limitare le informazioni online.” “Credo – dice Page – sia questione di fattori più generali che si devono valutare: non c’è modo di avere una soluzione perfetta. Ci sarà sempre qualche danno. Non si possono avere principi perfetti per tutto”. “Avrei preferito un maggiore coinvolgimento in un dibattito vero e proprio in Europa. E’ una delle cose – rimarca ancora Page – che abbiamo imparato da questa vicenda, ma ci stiamo preparando a parlare direttamente con le persone”.

Dunque, la necessità di poter rimuovere tutte quelle informazioni che in qualche modo influenzano la vita delle persone, mettendo a rischio la loro privacy, rimane una questione primaria. E la sentenza della Corte Ue è servita almeno a smuovere le acque e ad aprire un nuovo dibattito sull’utilizzo del Web.

Un’altra proposta arriva dalla Germania, dove viene valutata l’ipotesi di creare dei tribunali informatici specializzati nella soluzione di quei casi in cui gli utenti chiedono di proteggere la propria riservatezza rispetto ai contenuti di siti web o social network. In particolare si tratta di difendere i cittadini da vicende legate al passato, come nel caso spagnolo. I giudici di questo tribunale dovranno applicare le norme dell’Unione europea sulla protezione dei dati. Si tratta di una proposta, ma il solco è tracciato.

Antonio Pascotto

Tags: web, privacy
di Antonio PascottoGiornalista Caporedattore All news Mediaset, Tgcom 24.