Spettacolo

INTERVISTA ESCLUSIVA : Antony Genovese, « Il pagliaccio » stellato di Roma

Dalla Francia all'Asia e poi l'Italia. Cresciuto con una nonna cuoca e un nonno pasticcere dove la cucina era quella calabrese. Anche il Papa tornerà a trovarlo…forse per mangiare Ostriche, camomilla, mela verde e coda di bue.

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Ha viaggiato a lungo. Ha respirato l’oriente. E l’ha riversato nei suoi piatti con contaminazioni armoniche.

Mi chiamo Antony Genovese. Quando sono nato in Francia nel 68, mamma decise di darmi il nome Antony e non Antonio, mentre Genovese è il cognome di papà: calabresi tutti e due, nati e cresciuti in Calabria. E’ con questa puntualizzazione che con Antony comincia l’ istruttiva e divertente «chiacchierata» a tutto campo, nel giorno di riposo del suo ristorante bistellato Michelin il «Pagliaccio», situato nel centro storico, a due passi dal Vaticano. E pare che una volta, «Papa Francesco», da semplice Cardinale, passando per Via dei Banchi Vecchi, si fosse affacciato sulla soglia del ristorante incuriosito dal nome, pensando a una classica trattoria alla romana. Compiaciuto per la minimalista ma solida ed elegante essenzialità del locale, avrebbe detto che sarebbe tornato con calma per assaggiare i piatti di Antony! Leggenda metropolitana o no, fa sempre bene parlarne, anche perché al «Pagliaccio» la cucina non tradisce le aspettative che sono quelle del mangiare sano e bene. E per i gourmet che hanno testato le cucine in giro nel mondo significa anche fare un viaggio sensoriale di immensa goduria per il palato.

Perché hai scelto di fare il cuoco e non un’altra attività? Per esempio, Heinz Beck ha detto che, lui, avrebbe fatto il pittore…

Io volevo guidare i treni. Sono cresciuto vicino alla stazione ed ero affascinato dal movimento dei treni, ma, essendo italiano (sono diventato francese all’età di 18 anni), non potevo entrare nella scuola statale. Comunque, avevo già l’hobby e la passione della cucina.

Mai avuto momenti di ripensamento sulle scelte fatte, neanche di fronte a delle difficoltà?

Mai. Fino ad adesso, grazie a Dio, amo ancora quello che faccio.

 

 

A che età è scattata questa scelta?

E’ difficile rispondere. Sono cresciuto con una nonna cuoca e un nonno pasticcere in una famiglia abbastanza umile dove, naturalmente, la cucina era quella calabrese, una cucina povera fatta di pochi elementi. Da quando mi ricordo, a me è sempre piaciuta l’idea di creare trasformando un prodotto grezzo e farlo diventare un piatto che possono gustare tutti: questa possibilità mi ha sempre affascinato.

Da quanti anni sei tra le pentole?

Trenta, girando tra tante cucine, cominciando da quelle francesi. Ho lavorato in diversi ristoranti di rilievo in Costa Azzurra. Nella brigada di Dominique Le Stanc, a Eze Village, due stelle Michelin, ho fatto una full immersion di quelle pesanti, come fa la scuola di cucina francese: quella che non transige e dove non c’è posto per la «democrazia», dove devi presentarti con il cappello e il grembiule e mani e scarpe lucide: è stata veramente una caserma, ma si impara a non dimenticare l’abc dei fondamentali della grande cucina e la loro insuperabile tecnica.
Però, la mia ambizione era venire in Italia. Io mi sono sempre sentito italiano e vivevo in un continuo conflitto perché non mi sentivo di rappresentare la Francia. In Italia, all’epoca, senza offendere nessuno, c’erano soltanto
Marchesi e Pinchiorri. Scrissi diverse volte a Marchesi, ma era sempre pieno. Un giorno, Pinchiorri mi rispose che aveva un posto. Decisi di fare la valigia e di lasciare la Costa Azzurra per andare a Firenze. Il mio chef si offese moltissimo perché, allora, la cucina italiana non era considerata come ora ed era vista soltanto come un’espressione di pomodoro e basilico. Niente altro. Avevo due inviti, uno per andare da Ducasse, a Montecarlo, o da Troisgros, a Rouen. Invece, feci una scelta drastica con Pinchiorri, a Firenze. E da lì parte tutta la mia strada.
Erano gli anni ’90. Venivo da una Francia ingessata nel suo modo di cucinare e, in Italia, trovai una cucina fatta di prodotti freschi, di cotture veloci, di abbinamenti che non conoscevo. Non si usava panna e pochissimo burro: per me fu uno choc tremendo e un vero colpo di fulmine: l’ho subito amata. Mi ricordo che il primo piatto che mi fecero mangiare fu un baccalà con dei ceci e una crema di limone: una leggerezza, un profumo.


Mi dicevi anche che dopo c’è stata un’altra tappa fondamentale sul tuo percorso di crescita e conoscenza di altre importanti cucine come quelle asiatiche. Come è andata in Asia?

La prima volta, sono partito per fare una promozione all’Oriental di Bankok e l’Asia mi ha colpito per i suoi profumi, il caldo, le spezie, i fiori, i colori, per queste cotture velocissime. E l’ho subito amata. Per diverse volte ho fatto avanti indietro Firenze – Bankok per le promozioni. Poi, c’è stata l’apertura dell’Enoteca Pinchiorri a Tokio dove sono rimasto un anno come chef. Dopo Pinchiorri, sono stato tre anni a Londra. Poi ho deciso di andare in Malesia per conoscere un’altra tipologia di cucina, completamente diversa da quella cinese e dalla tailandese. Sono rimasto due anni in Malesia e a Singapore. Infine, sono ritornato in Italia e sono andato a Ravello che mi ha dato molto, ma forse ero troppo giovane per rimanere in un piccolo anche se prezioso paesino della costa amalfitana. Così sono venuto a Roma.

 

Antony con lo staff di sala

 

E ti sei di nuovo rimesso in discussione con l’apertura di un tuo ristorante che ha avuto un avvio un po’ criticato perché non comprensibile ai nostri palati.

Con la cucina orientale, alcuni anni fa, c’è stata un’esagerazione. Era forte la voglia di colpire, di essere diverso dagli altri ma è stato un peccato di gioventù: quando hai trent’anni hai voglia di colpire, soprattutto la stampa, e si pensa meno al cliente. Almeno per me era così.
Per me, non è il successo che mi fa andare avanti. Ovviamente, avere le stelle, un punteggio alto aiuta, ma quello che è importante è amare questo lavoro.


Si parla tanto di cucina, forse in maniera esasperata. Che consiglio daresti ai giovani?

Direi: datevi una calmata. Se arrivate ai vertici sappiate che lassù, sull’albero, c’è un vento tremendo e bisogna saper resistere. Bisogna fare delle tappe ma più nessuno ha voglia di ascoltarti. Questa è la cosa che mi dispiace di più.
Una volta, noi non scrivevamo neppure un curriculum. Si entrava a 16, 18 anni. Dopo due anni, il tuo chef ti mandava via consigliandoti di fare 4 – 5 «case», non di più, per capire veramente il mondo della cucina: due anni da uno chef più classico, due anni da uno più moderno, due anni in una piccola « casa », due anni in un grande albergo. Dopo, verso i 28, 30 anni, eri in grado di scegliere il tipo di cucina più adatto a te.
Oggi c’è questa fretta di fare 4 mesi da una parte, 4 dall’altra, senza capire nulla. Vogliono vedere soltanto i risultati: il piatto è bello, è fine. Ma lo sai fare? Io vedo dei ragazzi che non sanno ancora fare un brodo. Sarò magari old fashion, ma questi non sanno nemmeno passare un brodo: li vedi ancora con il mestolo che schiacciano. E’ imbarazzante.


Secondo te la colpa è della cucina creativa che non ha più frontiere?

Io credo che ci sia una piccola fetta di miei colleghi, forse l’altra generazione o la mia, che continua a voler esasperare la ricerca ma è spiacevole a volte vedere il cliente che appoggia la forchetta sul piatto e scuote la testa chiedendosi che cosa ha mangiato. Però, tutto sommato, io sono stato a testare piatti in Francia, Spagna, Danimarca, Germania e ho mangiato prodotti che si riconoscono. E’ vero che la tecnica c’è e aiuta la cucina ma non prende più il sopravvento. Penso che oggi la tecnica abbia fatto un passo indietro per lasciare più spazio ai suoi contenuti. Almeno questo è il mio parere.

E cosa pensi di tutti questi talk show, tutte queste trasmissioni che parlano di cucina?

Ne faccio una anch’io, tutti i venerdì. Ma senti questa. Mi è successo di riprendere uno dei due giovani chef che mi accompagnano perché ha detto che quando si cuoce la verdura l’acqua non va salata. Ho risposto che l’acqua va sempre salata. Questa regola, non l’ho creata io è dalla notte dei tempi che si mette il sale nell’acqua bollente. « E’ una questione di opinione, io non la vedo così » - mi risponde. Che dire? A 23 anni pensa già di insegnare a me a cucinare. E’ irritante.

Certo manca anche l’umiltà da parte di chi ha cominciato a cucinare cinque minuti prima.
Però, frequentando molte cucine di chef stellati, ho notato che non c’è più allegria e armonia in cucina, si sente solo tensione. Perché?


C’è sempre un riflettore acceso e così abbiamo paura di sbagliare, di non essere all’altezza. C’è quest’ansia di conoscere sempre in anticipo cosa pensa l’esperto delle creazioni che escono dalla cucina, di un eventuale punteggio di un ispettore di una guida! Viviamo con queste paure, con questi timori. Indubbiamente è sbagliatissimo. Invece, ci si deve ricordare che, finché il ristorante è pieno, le cose vanno bene, va bene tutto anche se ti tolgono mezzo punto.
Ho sentito ragazzi di 30-35 anni, proprietari, che chiudevano il ristorante per dedicarsi solo al grande giornalista che veniva a mangiare. E’ follia totale perché per non fallire dopo 3-4 anni bisogna prima far « parlare il cassetto » . Dopo si fanno tutte le altre considerazioni. Anche nel grande albergo le cose sono cambiate. Tanti pensano di andare lì, chiavi in mano, divertirsi. No, no, alla fine della settimana, non del mese, devi rendere conto perché hai lavorato o non hai lavorato e i conti devono tornare. Fare insieme lo chef e il patron è completamente diverso.

 

 

E che cosa mi dici dello street food, e tanti altri food oggi tanto in voga, che ti fanno mangiare con sei, otto euro?

Se vado in un ristorante asiatico o locale che per otto euro e cinquanta mette nel buffet dei gamberi e alcuni clienti dicono di aver mangiato divinamente, ecco, io mi spavento. Prezzi alla mano, un menù per quella cifra è impossibile. La crisi ha portato sicuramente una grande fetta del pubblico a voler mangiare fuori con quattro soldi senza guardare la qualità e questo è sbagliato. Si può mangiare bene spendendo poco a casa propria, ma certo, quando si va fuori, ci si deve ricordare che i prezzi sono rapportati alla qualità del prodotto.

E, guardando l’orologio e scrollando la testa, aggiunge con una nota di amarezza di avere poco tempo libero:

quando ne ho – aggiunge - mi piace andare a correre, almeno due volte alla settimana, e andare al cinema la domenica quando il ristorante è chiuso, però per i fatti mei. Mi piace stare un po’ da solo, per staccare.


Mi liquida cosi con un abbraccio e l’invito a tornare per testare la nuova carta.
Una nota comunque il critico la deve fare anche se è facile spargere consensi sulla sua simpatia e professionalità. Come diceva un grande critico francese non esiste un menù perfetto, qualche scivolata c’è sempre, ma perdonabile.

 

 


La forza di Antony Genovese è di convogliare nel piatto creazioni perfette, con incontri sensoriali tra occidente e oriente. Come il sublime « Piccione, crema di Kumquat e riso thai » che lo identifica ed è l'emblema del suo modo istrionico di fare cucina artigianale, mai stravagante, equilibrata e, soprattutto, autobiografica. La si ritrova nella sua carta dei tre menù, pensati per soddisfare ed essere capito da tutti i palati e attento alle nuove tendenze del momento con proposte salutistiche. Così, il pescato è esaltato da perfetti inserimenti di « fusion », ideale con alimenti a basso contenuto calorico ma esaltanti per la vivacità del gusto e profumo, che si trovano nel poker di proposte che vanno dal « Granchio con agrumi, emulsione di olio d’oliva e patate », o le « Capesante, carote zenzero, e lime », « Ostriche, camomilla, mela verde e coda di bue », « Gambero rosso, limone e porro bruciato ». E poi la tradizione di piatti regionali personalizzati con un tocco di fantasia che non tradiscono l’aspettativa del cliente, come i « Ravioli con midollo, rape rosse e lumache » e i classici « Spaghetti olio e peperoncino, alga fritta e pannocchie », « Cappelletti di pollo e cavolfiore ».
La sua è una cucina laica senza tabù non classificabile secondo gli schemi correnti. Come direbbe il grande Celentano, lui è Rock nel senso che alla sua creatività impone non velocità, ma ritmo e sensualità con giochi alternanti di tecnica, consistenza, acidità e gusto, con la certezza di regalare felicità a chi la prova.

Di lui si sa tanto, grazie a quelle due stelle che la guida rossa gli ha assegnato, ma non troppo perché lui è come i suoi piatti: un gentlemam della ristorazione ricca di aneddoti e sorprese. In dieci anni di percorso, affiancato in cucina da una brigada altamente fidelizzata, è riuscito a consacrare il « Pagliaccio » come uno dei più rappresentativi ristoranti gourmet nella capitale e nel mondo, visto che la sua clientela è universale.
« Ridi Pagliaccio » il tuo amore per il food non è infranto merita una deviazione durante un viaggio, ovunque tu sia per provare la sua cucina, almeno una volta nella vita.

 

Photo by Aromicreativi

Jerry Bortolan

di Jerry BortolanReporter, giornalista di viaggio ed enogastronomico.