Spettacolo

Intervista esclusiva a Carlo Carlei: IL SISTEMA DISTRIBUTIVO ATTUALE E’ DESTINATO A MORIRE. ANCHE CHI COMANDAVA AL BOTTEGHINO ADESSO NON TROVA DISTRIBUZIONE NEANCHE CON ROBERT DE NIRO E COMPANY

Nel futuro della sala cinematografica i film saranno sempre più un evento, come un grande concerto rock, Cinema e televisione sempre più simili.

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Cominciamo da un aneddoto: è il 1994, in una puntata di Domenica In Oliver Stone dice «Tra i registi italiani mi piace molto Carlo Carlei», Mara Venier arrossisce e replica «Chi?». L’episodio finisce su Blob e diventa un articolo per il Corriere della Sera. Lei allora era un regista di 32 anni molto conosciuto negli Stati Uniti ma poco noto in Italia. Come si è evoluto questo negli anni?

Dal punto di vista della percezione mediatica credo non sia cambiato molto, anche perché non ho sprecato molte energie a fare public relation. Mi sono sempre concentrato sul mio lavoro, come se fosse il laboratorio di uno scienziato e mi ci sono dedicato con grande passione. Ma probabilmente ho commesso un errore, perché quando si opera nel campo dell’intrattenimento costruire un brand è importante.
Resta però la stima di grandi registi hollywoodiani, come è successo con La corsa dell’innocente (Carlei 1992), che è diventato un cult. Oliver Stone ma anche James Cameron, Guillermo Del Toro e Alfonso Cuaròn, hanno molto amato il film e siamo poi diventati amici, e questo mi è bastato. Ma è vero che avere un’immagine riconoscibile conta e me ne sono accorto adesso che ho fatto Romeo & Juliet, che è passato assolutamente sotto silenzio.

Soffermiamoci su Romeo & Juliet. Una sceneggiatura scritta dal premio oscar Julian Fellowes, un cast internazionale con la giovanissima candidata all’oscar Hailee Steinfeld (classe 1996), Stellan Skarsgård, Laura Morante, Paul Giamatti solo per citarne alcuni. Uscito nelle sale statunitensi e britanniche nell’ottobre 2013, è arrivato in Italia nel febbraio 2015, un anno e mezzo dopo, senza promozione e in poche sale. Come mai questo ritardo nella distribuzione?

Al di là del puntare il dito e cercare dei colpevoli in una situazione che credo si commenti da sola - considerata la quantità di film italiani di qualità discutibile che vengono vomitati nelle sale - un film del genere forse avrebbe meritato chances che non ha avuto.
Credo che i motivi siano due. Il primo è che, se da un punto di vista della concezione dell’ingegneria finanziaria mettere insieme questo film è stato un miracolo (molte entità produttive diverse, addirittura una parte consistente del budget è stato messo dal gruppo Swarovski), non c’era gente di grande esperienza nel campo della distribuzione.
Il secondo è che il film è stato subito prevenduto in tutto il mondo e a Netflix in America, quindi non c’era un vero incentivo a rischiare un investimento cospicuo per andare nelle sale. Essere distribuiti in 3000 sale negli Stati Uniti o 300 in Italia ha un costo. Proprio l’appetibilità del film dal punto di vista delle prevendite, quindi, è stata una sorta di trappola.
Negli Stati Uniti si è fatta un’uscita abbastanza ridotta, in sole 300 sale mentre in Italia si è rimandato, e poiché non c’era un produttore forte il film è rimasto in naftalina. E col tempo la percezione è stata di un film che forse aveva dei problemi, che non riusciva a vedere la luce del sole per chissà quali oscuri motivi, quando il pubblico che l’ha visto ha sempre risposto in modo entusiastico e commosso.

 

 

 

Il vero problema però è che, al di là di Romeo & Juliet, ci sono molti film con un cast eccezionale, Robert De Niro, John Travolta, gente che in un certo senso comandava al botteghino 10 anni fa, e che adesso non trova distribuzione in Italia se non nella televisione via satellite a pagamento. Questo significa che il mercato sta drasticamente cambiando, ed è molto importante intravedere quello che potrebbe essere il futuro.

Ce ne stiamo accorgendo analizzando tutti i risultati al box office, anche dei grandi blockbuster - con l’eccezione forse dei grandi film basati sui fumetti - il secondo weekend calano del 70-75%. 50 sfumature di grigio, grandissimo successo, è crollato la settimana successiva di più del 70%. Questo vuol dire che il film distribuito nelle sale cinematografiche si sta trasformando in evento mediatico, sempre più simile a un grande concerto rock. Quanto alle società indipendenti che hanno la fortuna di mettere le mani su un piccolo film che vince un oscar o un festival eccetera sono eccezioni che non possono sostenere un’intera industria.

Andare al cinema ad una famiglia di 4 persone in America costa 100 dollari. La stessa famiglia oggi con 10 dollari si può guardare a casa una prima visione su uno schermo gigante con un buon equipaggiamento audio. Fra 5 o 6 anni tutte le case di chi se lo potrà permettere saranno dotate di megaschermi ad altissima risoluzione che consentiranno di godersi un film con tutti i benefici tecnici di una esperienza di cui si ha il controllo: non si subirà l’orario dello spettacolo, il fatto di dover parcheggiare, pagare magari una cifra cospicua per biglietto, pop corn e coca cola…
La maggioranza dei film si vedranno comunque a casa su grandi schermi che costeranno sempre di meno. Tra poco arriveranno quelli da 100 pollici, forse anche quelli da 150, e il 4k nel giro di pochi anni sarà superato, si vedranno le immagini in un modo pazzesco…
Per quanto riguarda noi registi, il mezzo di fruizione attraverso il quale i nostri prodotti verranno visti dal pubblico avrà poi un impatto sia sulle scelte creative che su quelle di base, come la storia che si decide di raccontare.


Sembra che in Italia negli ultimi dieci anni l’affermarsi delle multisale, dei canali tematici e della fruizione digitale abbiano portato a una “televisivizzazione” dell’opera cinematografica. Le commedie di successo, proprio nel momento in cui rilanciano le sorti commerciali del nostro cinema ne sancirebbero, di fatto, la "morte" dal punto di vista estetico, autorelegandosi a un linguaggio derivativo rispetto alle varie fiction televisive. Potrebbe essere stato una sorta di boomerang per la sala cinematografica, perché si distingue meno la differenza tra l’andare al cinema e il restare a casa?

E’ un discorso complesso… Io ho cominciato come regista di cinema e molti miei colleghi, dopo Fluke (Carlei 1995) che era un film americano, quando decisi di fare per la tv Padre Pio storsero il naso e dissero “ma perché ti metti a fare televisione?”. Ma per me Padre Pio così come dopo Ferrari non erano televisione, erano film. Li ho girati come fossero cinema, in 35mm e con una bellissima fotografia. E in questo credo di essere stato abbastanza pioniere, perché ho capito che le potenzialità del mezzo televisivo andavano al di là del solito sceneggiato.
Io credo che anche in tv si possa fare grande cinema, grande in termini di qualità, di attori, di collaboratori… Poi oggi ci sarà comunque gente che vedrà il tuo film in uno schermo piccolo come quello di uno smartphone o lo si vedrà in aereo in pessime condizioni.


Quindi quale potrebbe essere, secondo lei, il futuro della sala cinematografica?

Per evitare che la gente resti a casa, si faranno schermi in super IMAX, grandi quanto un palazzo, con incredibili effetti, con la sedia che si muove, con i profumi etc. S’inventeranno di tutto, com’è già stato in passato. La visione stereoscopica lanciata da Cameron con Avatar in 3D è in un certo senso una modernizzazione da un punto di vista tecnologico di una tecnica che avevano inventato negli anni Cinquanta. Certo il biglietto costerà tra i 20 e i 30 euro.
Per le sale tradizionali ci sarà un futuro anche per i film di nicchia. Saranno fenomeni come il Rocky Horror Picture Show, che magari vanno avanti anche per anni. In Italia penso a un film come Salvo (Fabio Grassadonia, Antonio Piazza 2013) che è durato tantissimo tempo, o il film di Giorgio Diritti Il vento fa il suo giro al Mexico di Milano
(è stato tenuto in locandina per due anni nda).

Stiamo sull’orlo di un grande cambiamento, e su quest’orlo noi possiamo vedere sia il futuro sia il passato. È chiaro che c’è un sacco di gente che vorrebbe poter restare ancorata al passato. Però bisogna anche capire che da un punto di vista creativo questo momento può essere molto stimolante. Piuttosto che temere di perdere l’esperienza mediatica collettiva di vedere un film in queste “cattedrali” del rituale dell’apprezzamento di uno spettacolo per immagini, proverei a concentrarmi su quello che ne guadagneremo.

Io credo che il cinema in questo momento stia vivendo una fase di confusione. Tanti film che vanno in sala sono molto televisivi, però poi vedi una serie come True detective che non è per nulla televisiva: è in 8-10 ore, è un grandissimo film. È Fincher ma molto più umano perché secondo me Fukunawa è tecnicamente altrettanto bravo ma ha delle corde diverse. Il trono di spade, fatte le debite proporzioni, è quello che fino a dieci anni fa era Il signore degli anelli, soltanto che è spalmato in molte più ore.

 

 

 

Da un punto di vista della struttura del racconto, le serie televisive ci stanno facendo capire che lo schema dei tre atti e il film di 2 ore, nel momento stesso in cui esploderanno i media, i supporti attraverso i quali godersi questi spettacoli, non è più la Bibbia. Film come C’era una volta in America di Sergio Leone, o Apocalipse now o lo stesso Padrino di Coppola, ci fanno capire che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi il fatto che si possono fare dei capolavori che rompono questo schema.

Alla moltiplicazione dei media ha corrisposto una moltiplicazione delle forme narrative?

Si sono moltiplicate e questo non dà solo la possibilità di un’esplosione del racconto… è di appena ieri la notizia che la HBO ha detto ai produttori de Il trono di spade che forse sette stagioni non bastano, forse se ne raggiungeranno dieci, o anche di più.
Questa moltiplicazione dei modi di fruire spettacolo magari ci farà apprezzare anche altre forme di film che per anni sono state considerate minori e non hanno avuto visibilità, come i cortometraggi. Su YouTube e sul web le narrazioni di 3, 10, 15 minuti sono già il presente.
Ci sarà molta più libertà, proprio perché quello che conterà sarà sempre di più l’idea, il contenuto e non più la forma, che si adatterà in base ai diversi mezzi di fruizione.

 

 

Nel 2013 sono stati prodotti in Italia per il cinema più di 300 film, di questi ne sono stati distribuiti meno di 100. Questo dato fa pensare che se da un lato potrebbe essere diventato più facile produrre, dall’altro è la distribuzione il vero collo di bottiglia che non permette di dare visibilità a ciò che è stato realizzato. Cosa pensa lei dello stato di salute della distribuzione cinematografica in Italia e secondo lei come potrebbe migliorare, considerata la moltiplicazione dei canali di diffusione digitale?

Il sistema distributivo in Italia è viziato da gravissime contraddizioni e conflitti d’interessi, ma è un sistema molto forte, che resiste nonostante tutti i cambiamenti che stanno avvenendo. Ma fino a 15 anni fa era impensabile che gli stabilimenti di sviluppo e stampa chiudessero, che gli assistenti al montaggio si riducessero. Con l’avvento del digitale il bacino professionale dell’industria cinematografica si è ridotto drasticamente.

Per quanto riguarda le sale, basterebbe che un esercente si mettesse d’accordo con un distributore per ottenere un codice e proiettare dal DCP (un file compresso e criptato nda), senza nessun altro passaggio. In questo modo i guadagni sarebbero di chi distribuisce il film e di chi poi lo mette nella sala. Ci sono invece tutta una serie di figure intermedie, che nel vecchio sistema facevano una sorta di distribuzione all’interno della distribuzione: c’era una distribuzione che distribuiva il film, e poi una catena di gente che decideva a chi distribuire il film, cioè a quali esercenti darlo, in quale provincia arrivare... È un sistema che ancora resiste, ma che prima o poi verrà spazzato via, perché è illogico e antieconomico.
Gli esercenti in un certo senso sono eroici, perché stanno resistendo all’assalto dei multiplex… Io vorrei che queste persone fossero libere, di distribuire i film che preferiscono, di tenerli quanto vogliono, senza dover sottostare a nessun tipo di ricatto. E questo un giorno avverrà. Speriamo non troppo tardi, perchè si chiudono sempre più sale.


Perché io che ho voglia di vedere un film devo prendere la macchina, a Roma come in una qualsiasi città italiana, e devo andare dopo il raccordo anulare o fuori città in un multiplex per vedere un film che avrei potuto vedere in un cinema vicino casa? L’Italia non è l’America, Roma o Milano non sono Las Vegas: iI cinema di quartiere da noi è un patrimonio. E l’Adriano, che è un multiplex ma in centro città e oggi forse la sala più di successo a Roma, dimostra che sono state fatte delle politiche culturali assolutamente folli. Pensiamo all’Etoile, dato a Louis Vuitton, una delle sale più belle e più antiche di Roma, tutti i film di Kubrick venivano proiettati lì… Cinema che sono sempre andati benissimo, con dei politici corrotti e incompetenti che li hanno smantellati.
Non è solo colpa degli agenti regionali. È l’incredibile contraddizione di un sistema che ha a capo della distribuzione persone che hanno interessi anche nell’esercizio. È come se tu fossi produttore di mozzarelle e avessi dei supermercati e dessi le mozzarelle solo ai tuoi supermercati, non permettendo l’ingresso in quei supermercati di altre mozzarelle.

Da molti anni ormai lei vive più negli Stati Uniti che in Italia. Qual è la situazione della distribuzione cinematografica lì, soprattutto alla luce del diffondersi della fruizione on line e del Video on Demand e di realtà come Netflix, che hanno distribuito anche il suo Romeo & Juliet?

Tutto il discorso che ho fatto si basava proprio sul modello americano. La previsione del film come evento mediatico molto più simile al concerto, quindi con una saturazione delle sale dell’80-90% ma per un periodo ristretto, non l’ho fatta io, l’ha fatta Spielberg. E lì sono tutti abbastanza concordi. Poi ci sono persone come Cameron che pensano che ci saranno cinema sempre più grandi per proiettare i suoi film sempre più spettacolari.

Fra l’altro si stanno verificando delle vere e proprie contaminazioni, non solo a livello di linguaggio ma anche di sale. Un film come Philomena sembra un film che avresti potuto vedere già quindici anni fa sul canale televisivo americano Life Time. Allo stesso tempo in America stanno prendendo piede delle sale cinematografiche che sono sempre più simili a dei salotti di casa, con divani in pelle, col cameriere che mentre vedi il film viene a servirti… A me sembrano caricature, una riproduzione dello spazio domestico che però viene reso pubblico. Sono esperimenti che probabilmente avranno ancora per un po’ un certo successo, ma sono gli ultimi bagliori di un crepuscolo. Ci saranno sempre cinefili che vogliono vedere il cult movie, però se parliamo dal punto di vista dell’industria e del ritorno degli investimenti, non possono essere queste esperienze, simpatiche, carine e nostalgiche, che avranno un peso significativo sul business globale. Altrimenti si dovrebbe dire che Silvano Agosti, che tiene così amorevolmente l’Azzurro Scipioni da tantissimi anni, ha un peso nell’economia del cinema italiano.

Non parliamo di cinema e televisione, visto che i linguaggi e le estetiche sembra si stiano sempre più avvicinando; parliamo di film. Quali caratteristiche dovrebbe avere oggi, secondo lei, un film italiano che voglia rivolgersi a un mercato internazionale?

È brutto dirlo, ma bisognerebbe cercare di fare delle cose in lingua non italiana, perché all’estero non doppiano i film, mettono i sottotitoli.
Il sottotitolo al cinema i cinefili lo sopportano: lo vedi grande e poi sei seduto, e stai dedicando tutto il tuo tempo alla visione di quel film. Ma in televisione non funziona, perché vedere un film straniero su uno schermo di piccole dimensioni mentre magari nel frattempo si fanno altre cose, è complicato. Con i grandi televisori al plasma il problema probabilmente si è risolto ma è dimostrato comunque che si preferisce vedere qualcosa nella propria lingua.
D’altra parte fare delle serie italiane in inglese non è semplice. È comunque forzato far recitare gli attori italiani in inglese, per quanto buona possa essere la pronuncia avranno sempre un accento italiano, per cui lo devi giustificare da un punto di vista della storia, e poi ti limita nella scelta degli attori.
Forse non bisogna porsi l’obiettivo di fare delle serie che poi avranno una diffusione globale: bisogna fare delle belle serie. Se sono belle, qualunque possa essere l ‘ostacolo sarà superato. Gomorra, che è una serie molto bella, molto innovativa e molto coraggiosa e che molti vorrebbero che servisse da esempio per scuotere tutte le menti che si occupano di concepire prodotti televisivi, è esistito perché c’era una volontà da parte del committente di fare qualcosa che rompesse gli schemi.

 

 

Un altro esempio è costituito da Montalbano, che è stata una serie di grandissimo successo anche internazionale, dimostra che quello che noi sappiamo fare è raccontare storie di italiani e di problemi italiani. Se li raccontiamo bene sono sicuro che riusciremo ad attrarre anche l’attenzione di un pubblico che va oltre i nostri confini.
Quindi rimanere fedeli a quelle che sono le nostre tradizioni e raccontare storie che noi sappiamo raccontare, ma che parlano di emozioni che poi possono diventare universali, è molto più importante che cercare la formula per fare la serie internazionale. Se qualcuno un giorno volesse mettere in scena e modernizzare le commedie di Eduardo de Filippo sono sicuro che avrebbe un successo planetario.

Valentina Leotta

di Valentina LeottaSceneggiatrice, ha svolto un dottorato di ricerca in film studies presso l’Università di Roma “Sapienza”.