Spettacolo

Truth: il film sulla verità giornalistica, il potere politico e le fonti

Il potere controlla i media e la verità. Non solo in Italia. Cate Blanchett e Robert Redford nel film, in anteprima a Toronto, sulla libertà dei giornalisti e l’abuso di potere.

di |

Ci sono due modi per leggere, apprezzare e capire Truth, il film sul giornalismo (“newsroom drama” dicono in America – e forse è più preciso), con Cate Blanchett e Robert Redford, che il 12 settembre ha avuto la sua anteprima mondiale al Festival di Toronto.
Il primo: il mondo del giornalismo è più sano e più forte se una grande testata è costretta a scusarsi per non aver avuto la possibilità di verificare le proprie fonti rispetto ad una notizia bomba (George W. Bush, fu aiutato dalle sue amicizie molto importanti a imboscarsi per non andare in guerra in Vietnam o addirittura ad essere coperto per assenze non giustificate durante il corso di pilota in accademia?).

Il secondo: il mondo del giornalismo non è più lo stesso di quello del Watergate quando un film come Tutti gli uomini del presidente, raccontava come due intrepidi reporter, con le conseguenze di una loro inchiesta, avessero costretto l’uomo più potente del mondo, il Presidente degli Stati Uniti, a rassegnare le dimissioni.

Stavolta, è il potere a mettere in ginocchio i media. Il film, diretto da James Van Der Bilt, un esordiente che ha però al suo attivo i copioni di film come Zodiac, ha il merito di lasciarti in tensione tra questi due opposti costringendo lo spettatore, alla fine di un dramma che ha il passo incalzante del thriller, a riflettere attentamente su entrambi.

 Che tra i due film ci sia un qualche legame lo dimostra il modo stesso in cui viene chiamata la storia di questo film: “Rathergate”, ovvero il caso che ha portato alla fine della carriera di uno dei volti più importanti del giornalismo americano dagli anni ’60 ad oggi, Dan Rather (chi scrive ha avuto il privilegio di stringerli la mano, qualche anno fa, durante un convegno), interpretato da Robert Redford, il cui volto è forse l’icona più autorevole del pensiero liberal nel cinema americano. Poco prima della sua seconda rielezione, nel 2004, in piena campagna elettorale, la CBS, in un programma giornalistico prestigioso (“Sixty Minutes”), grazie ad una cronista infaticabile e determinata, Mary Mapes, e al suo conduttore (Dan Rather, per l'appunto), scoprono dei documenti militari che confermano le manovre in favore di George W. – confermate a voce, al telefono, da un pezzo grosso dell’esercito in pensione. Il successo della messa in onda e la delicatezza del momento – le elezioni imminenti – fanno muovere la “famiglia “ presidenziale in modo tale che le conferme diventano smentite e i documenti scritti vengono sottoposti ad un fuoco di fila micidiale di dubbi sull’ autenticità alla fine dei quali la CBS finisce per scaricare i giornalisti: non solo licenzia la Mapes (e Rather qualche mese dopo) ma la sottopone ad una commissione d’inchiesta dal sapore maccartista.

 

 

Al di là del merito (la verifica sulle fonti è stata effettuata con lo scrupolo necessario? La libertà dei giornalisti è stata preservata dall’abuso di potere?), resta il cinema. Che è sodo, ben scritto, assai solidamente documentato – come un buon pezzo di giornalismo - e interpretato magnificamente.

Dennis Quaid e Topher Grace, sono quei comprimari, infaticabili collaboratori del team della giornalista, al cui idealismo crediamo anche in un film hollywoodiano come questo. Il montaggio, che contrappone una prima mezzora trionfale ad una successiva ora da incubo, durante la quale cronisti e dirigenti finiscono nell’occhio del ciclone della tempesta nel deserto mediatico scatenata dalla Casa Bianca, porta lo spettatore ad un percorso piuttosto sorprendente rispetto ai tradizionali thriller sul giornalismo.

 

 

Ma il vero effetto speciale del film sono Redford e la Blanchett: lui è un monumento malinconico ignaro di se stesso che rifiuta di piegarsi quando decidono di abbatterlo, lei è il vortice invisibile di quasi ogni inquadratura, poiché i suoi gesti pieni di destrezza e nervosismo, i suoi sguardi felini destinati al dolore e alle lacrime, la sua rabbiosa fede nella verità, innervano il film del suo peso specifico.
Tra i due c’è qualcosa di più che la stima e l’amicizia, qualcosa che ha che fare con la sensualità e l’abbandono.

Ma il merito del film è di lasciare questa cosa sullo sfondo, in sospensione, come il denso profumo di qualcuno in una stanza vuota. O come una notizia incontestabilmente vera – che nessuno potrà mai confermare.

Mario Sesti

di Mario SestiCritico e Festival Curator