Spettacolo

Il film di Rubini, dal teatro al set cinematografico. Dobbiamo parlare: dissidio, sincerità e violenza. Forse il racconto delle coppie in crisi tutti i giorni

Isabella Ragonese, Fabrizio Bentivoglio, Maria Pia Calzone raccontano qualcosa di disperato in modo molto divertente.

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‘Dobbiamo parlare’: quando il partner ci si rivolge a noi con questa espressione proviamo una immediata sensazione di allarme e timore”, ha detto alla conferenza stampa del film di Sergio Rubini Diego De Silva, sceneggiatore insieme a Rubini e a Carla Cavallini del film oltre ad essere tra i pochissimi scrittori capaci di libri tanto comici quanto intelligenti: così ricchi di riflessi rivelatori della nostra vita sentimentale, del nostro rapporto con il mondo e la famiglia, insomma, come si diceva negli anni ’70, così documentati su quanto sia difficile essere normali.
Il film di Rubini, passato con grande successo alla Festa del Cinema, si muove tutto su questo terreno lucidissimo e minato. A cominciare dal set. Un attico in pieno centro a Roma, a metà strada tra l’ Ara Pacis e Piazza del popolo. Lì vivono uno scrittore, Sergio Rubini, e la sua compagna Isabella Ragonese. Una coppia intellettuale, dall’aria spensierata, la cui fine giornata viene travolta dalle incursioni di due partner che formano un’altra coppia di amici, un affermato chirurgo (Fabrizio Bentivoglio) e la sua compagna (Maria Pia Calzone).
La scoperta del tradimento del chirurgo da parte della sua compagna innesca un gioco di rappresaglie incrociate che prima vedranno lo spettacolo di aggressione senza quartiere tra i due che formano la coppia di amici e poi quello della disfatta sanguinosa di un’amicizia (quello tra le due donne) e infine si propagherà alla coppia di partenza: è come se dal dissidio iniziale si irradiasse una infezione di sincerità e violenza che produrrà prima uno scontro tra le due coppie e infine una grave crisi al proprio interno della prima. Lei, la Ragonese, che scrive parte dei romanzi di lui senza firmare, sta scrivendo di nascosto il proprio. Un tradimento mentale può ferire ancor di più di uno sentimentale o sessuale. I due pesci rossi dell’acquario di casa, spettatori dell’intera mattanza che si volge tutta nel corso di una notte, avranno imparato la lezione su come riuscire a rimanere insieme senza sfigurarsi o odiarsi? O mentirsi.

 

Tutto il film, che ha un passo spedito e vorace sospinto da dialoghi affilati come lame di Toledo, non dissimula la propria genesi teatrale, anzi (gli stessi attori hanno prima portato il testo in teatro, rifinendolo nelle battute e nel ritmo grazie alle reazioni di un pubblico, e poi su un set: Rubini, con un’idea del tutto inconsueta, riporterà il film di nuovo a teatro, contemporaneamente alla sua distribuzione cinematografica). Ma è proprio il fuoco d’artificio, l’assolo ininterrotto della recitazione, l’ostinato di invettive, confessioni, crisi di nervi e dileggi, minacce e pentimenti a fare del film una commedia di atletismo e spettacolarità piuttosto sconosciute in un cinema i cui campioni di incasso della commedia sono Zalone e i Cinepanettoni.

 



Disciplina e allenamento, di riprese e montaggio, portano allo zenith gli attori. La Ragonese alimenta una tolleranza estenuata complicata da frustrazioni malcelate e un incoercibile istinto verso la franchezza. Bentivoglio tratteggia un barone della medicina, ricchissimo di vernacolo e conti da rinfacciare: un benestante ipnotizzato dal lavoro e dalla propria facoltosità la cui fragilità individuale colpisce quasi come una insospettabile qualità.

 

 

Maria Pia Calzone è una sorta di dark lady che la vita ha addestrato a manipolazioni intraprendenti e spietate, su più tavoli. Nella guerriglia della vita e dei sessi, è quella che ha giurato di non farsi mettere mai più all’angolo, a qualsiasi costo. E Rubini, che più di chiunque altro insiste nel conservare un tono di civiltà nel mezzo di una rissa il cui centro di gravitazione si sposta come una trottola di fronte agli occhi sorpresi dello spettatore, sarà invece proprio quello che dovrà fare i conti con più severità con la propria ipocrisia. Fosse stato in bianco e nero, con Manfredi o Tognazzi, la Vitti o la Sandrelli, si sarebbe chiamata critica di costume. Oggi, che  non c’è più quel mondo, e quel cinema, hai l’impressione che si tratti della stessa sferzante e malinconica destrezza: raccontare qualcosa di disperato in modo molto divertente.  Beato chi ritiene che oggi non sia più necessario di allora.  

Sergio Colabona

di Mario SestiCritico e Festival Curator