Spettacolo

L’Iran e la rivoluzione della moda. Rigido codice governativo aggirato da “tendenze e modernità”.

A Teheran anche un'agenzia di modelle. Stiliste ed influenze occidentali

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Quanto peso può avere la moda per l'identità e il progresso di un paese? Moltissimo. Soprattutto se il paese in questione è l'Iran. Esiste per le donne, come è noto, un codice vestimentario obbligatorio, introdotto l'indomani della Rivoluzione del 1979 da Khomeyni. Nel corso del tempo, con la  modernizzazione inevitabile del paese, le consuetudini femminili hanno forzato gli schemi imposti. Per contrastare la tendenza a imitare stili di vita e abbigliamento occidentali, considerati vergognosi e immorali, nel 2006, il governo di Ahmadinejad volle riformulare di nuovo il punto sugli obblighi che dovevano essere osservati. Si giocò allora con le possibili ambiguità che la moda consente: venne organizzata una sfilata evento dal titolo “le donne della mia terra”. Un nutrito gruppo di mannequins, in una messinscena completamente occidentale, con fumi e musiche tradizionali iraniane, sfilarono avvolte in modelli di chador della stessa fattura, neanche troppo colorati, che nascondevano totalmente le forme e talvolta anche il volto. L’intento di questa passerella era semplice: dimostrare che anche le iraniane potessero vestire in modo elegante senza mancar di rispetto alle tradizioni e alle leggi che la religione impongono: la moda restava ancora a tutti gli effetti uno strumento di distruzione della cultura islamica in Iran.
 
Non si può dire che l'arrivo dell'attuale presidente Rohani abbia cambiato regole. E l'obbligo di indossare il fazzoletto o hijab correttamente resta integro. Ma è vero che da poco il “Ministero della Cultura e dell'orientamento islamico” ha adottato una legge speciale per le attività delle industrie della moda. Questa piccola apertura ha significato l'avvio di una grande rivoluzione. Si sono moltiplicati stilisti, il mercato internazionale si sta affacciando a quello iraniano. A una velocità inimmaginabile qualche anno fa tutto sta cambiando, in un modo che forse deve sfuggire alle laboriose burocrazie governative. Non si tratta solo di una questione di creatività attraversata da ideali, ma soprattutto di mercato che arriva anche in Occidente. Del resto H&M, il colosso dell'abbigliamento svedese ha per primo fiutato l'affare, integrando il velo islamico tra i suoi capi di abbigliamento. Un primo passo verso la democratizzazione del velo ma anche un'eccellente strategia di marketing dell'azienda, sensibile alle influenze del Medio Oriente e dell'Asia Minore: perché non catturare anche le consumatrici  musulmane presenti nelle nazioni in cui il brand ha maggiori punti vendita come Inghilterra, Francia, Belgio e Germania (dove ne esistono almeno 450)?
 

 


Sadaf è una stilista iraniana che inizia a lavorare nel 2000 quando il guardaroba delle donne era ancora assai limitato, mentre solo prima della Rivoluzione islamica (che ha voluto dire “restaurazione”) le iraniane erano conosciute nel mondo per la loro eleganza. Ma dopo il 1979 si sono ritrovate ingabbiate in uno spazio unico e ristretto. L'attenzione di  questa stilista, come di  chiunque oggi voglia disegnare per la moda, deve concentrarsi innanzitutto sull' hijab, sul fazzoletto  che lascia il volto scoperto. Per Sadaf è stato anche difficile formare una squadra che lavorasse per lei, modelle comprese, per paura d'incorrere in qualche problema con il governo o con le proprie famiglie. Oggi esiste a Teheran un'agenzia di  modelle, Behpooshi, fondata da Sharif Razavi, che ha iniziato, pioniera, in un momento in cui non era neppure immaginabile. Dopo grandi sforzi, ora che il mercato si sta espandendo, l'agenzia ha avuto anche il suo riconoscimento giuridico.

Cosa rappresenti il velo islamico è questione complessa e varia a seconda dei paesi e delle implicazioni sociali economiche e politiche. E' una separazione esteriore estetica cui ne corrisponde una interiore fatta di reticenza, attesa, e nelle sue infinite declinazioni, anche di seduzione e erotismo. In un'approssimativa lista di significati, il velo rappresenta la separazione tra la sfera pubblica e quella privata, per alcune donne un'opportunità di partecipare alla vita pubblica, e per molte la propria espressione di femminilità passa sicuramente attraverso di questo. Al di là delle molteplici implicazioni e significati, pezzi di società e di modernità si raccontano e si rappresentano attraverso questo pezzo di stoffa. Sta di fatto che a Teheran le  case di moda si sbizzarriscono in modelli in seta, coloratissimi, decorati, con e senza frange. Mai come ora l'hijab fa tendenza e diventa lo spazio dove tutto è permesso.

 



Nella lista degli indumenti obbligatori c'è anche il manto. Si tratta di una sorta di spolverino o  camicione che scende sotto al ginocchio, non troppo accostato al corpo: la sua funzione primaria era quella di nascondere le forme. Per le strade di Teheran le ragazze ne indossano di coloratissimi. Raramente neri. Anche il “manto” diventa allora un altro “luogo”, uno spazio privilegiato su cui esprimere la propria identità, specificità e originalità. La casa di moda Coocoz ha concentrato l'attenzione su questo capo di abbigliamento necessario, rendendolo desiderabile con  modelli moderni e con una scelta di tessuti morbidi dai motivi di grande originalità. Tutto avviene miscelando sempre la propria tradizione con l' air du temps  riuscendo a creare prodotti fortemente connotanti.

Più o meno stesso percorso di Sadaf è quello della stilista Ghazaleh Rezaie, che ha creato il marchio Giselle, nel 2008. Sono manti asimmetrici, pop, con un lavoro costante sulla forma, continuamente destrutturata. Tutti dicono: “me ne andrei, ma sento che ora Teheran ha bisogno di me”. Non è un caso che, proprio la settimana del 16 novembre,  il Time è uscito con una copertina raffigurante una adolescente con un cellulare e un palloncino rosa fucsia che si libra nell'aria. Lo strillo recita:   “Iran  2025. How its next decade will change the world».

Sabina Ambrogi

di Sabina AmbrogiGiornalista e Flaneuse