Spettacolo

"Per me Dio è sia donna che uomo".

Intervista alla regista franco marocchina Houda Benyamina che con il suo “Divines” vince la Camera D’or a Cannes.

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E' già cult il film “Divines”, il lungometraggio della regista franco marocchina Houda Benyamina che ha vinto la Camera D'or, il premio che la sezione di Cannes la Quanzaine des Réalisateurs dà alle opere prime. E' un film su due ragazze adolescenti amiche per la pelle: Dounia (Oulaya Benyamina) cresciuta sotto il cavalcavia di un'autostrada in un campo rom, con una madre alcolista (Majdouline Idrissi) di cui lei si fa più o meno carico e Maïmouna (Déborah Lukumuena) di origini africane, figlia di un Imam del quartiere. Laurel e Hardy di periferia si assicurano una sopravvivenza spiccia rubacchiando merce al supermercato e rivendendola ai compagni di classe durante la ricreazione dei loro corsi di un istituto professionale. Qui, dovrebbero imparare a fare accoglienza in strutture alberghiere. “Ma io non voglio fare la tua fine a mille duecento euro al mese!” dice Dounia – in una scena esilarante – rivolta alla sua insegnante. Si rivolgono a una spacciatrice di zona, Rebecca (Jisca Kalvanda), la boss del quartiere con la quale Dounia dopo essersi fatta valere nella gerarchia criminale si arricchisce. Ma è da qui che la sua storia di amicizia con Maïmouna diventa un susseguirsi di avventure, divertentissime, tragiche, commoventi. Di certo, è un film che ribalta tutti i codici: dagli stereotipi femminili, ai ruoli, ai codici riguardanti personaggi emarginati: magrebini e africani che vivono nelle periferie di una qualche metropoli francese (poco importa quale) dove i soldi, le fric, la thune, l'argent, le blé sono il motivo ossessivo e le cui leggi sono chiarissime alle due ragazze. Un po' fiaba, un po' buddy movie, commedia romantica e dramma.
Anche la storia della regista Houda Benyamina (35 anni) è un percorso di grande riscatto e di volontà. E di grandissima intelligenza, come tutti questi personaggi.

Come è arrivata al cinema?
“Maturità in materie letterarie, che mi ha fatto scoprire Céline e Pasolini, anche se i professori mi dicevano che non avrei mai concluso niente nella vita. Poi ho fatto la scuola di teatro di Cannes (l'Erac) dove ho conosciuto un bel po' di frustrazione. Per questo ho fondato 1000 Visages, un'associazione che promuove la diversità in un mainstream narrativo troppo omogeneo. Rispetto alle altre cosiddette storie di diversità, anche se non mi piace la parola, il cinema mi pareva davvero limitato. C'era sempre un padre che voleva rimandare i figli al paese di provenienza. Cosa che non ho affatto vissuto, visto che la mia famiglia è molto aperta”.

 

 

 

Come è nata la storia di Divines?
La storia è nata diverso tempo fa, in seguito alle rivolte nelle banlieus del 2005. Mi sono sempre chiesta perché ci fosse tanta collera, e non un' “intelligenza, una vera e propria rivolta, un verbo che riprendessa questa sensazione di ingiustizia, delle domande insomma. Poi anche da un documentario che raccontava un episodio di cronaca che mi aveva molto colpito: due ragazzine, erano due detenute, ballavano con i poliziotti che sembravano degli animatori. Mi sono riconosciuta in queste ragazzine, mi sono detta che avrei potuto essere una di loro, cioè dei personaggi squilibrati che non sanno bene come orientare la loro collera e finiscono per metterla a servizio della delinquenza. Ecco in questo senso il mio film parla di piccola delinquenza. Anche io da ragazza ero piena di rabbia, e facevo un sacco di cavolate.

E' un film che evoca l'atmosfera e anche un po' i cliché delle periferie...
“Divines” non è un film sulle banlieus. Quando cercavamo i soldi era la cosa che ci rinfacciavano sempre: “Un altro film sulle periferie?”. E io dicevo: e che significa? Non si sentirà mai nessuno che dica “ci sono troppi film ambientati a Parigi”. Volevo raccontare questa storia perché la verità sulla diversità non è accidentale, ma universale. Né è un film di ribellione. Direi invece che è una sorta di manifesto, in cui cerco di ribaltare tutti gli stereotipi sulle donne, sulle periferie, su queste persone che fanno con quello che hanno. “Divines” è un dramma ma l'umorismo e la risata ho voluto che fossero al centro della storia.


Che ruoli femminili aveva in mente?
Volevo delle samurai, delle eroine fuori dal comune, come nella tragedia greca in cui la donna non è l'attributo dell'uomo.

 

 


Come è avvenuta la scelta su Oulaya (bravissima peraltro), una delle due protagoniste?
Oulaya è mia sorella. Ma non significa nulla. Anzi. Innanzitutto è stata appena presa al Conservatoire national d’art dramatique di Parigi, ma lei stessa si è battuta con molta fatica fino alla fine per convincermi. Per me era totalmente fuori ruolo. Faceva danza classica, è molto delicata nei modi e nell'atteggiamento, l'esatto contrario del personaggio brutale, rozzo, e molto fisico. In tutto il film il corpo è molto importante: perché è quello che non mente. Tanto che per pensare alla coppia delle due amiche siamo partite da Laurel e Hardy: la più piccola e minuta sogna il potere l'altra che avrebbe un potere già fisico è la più dolce e pacioccona. Mia sorella per interpretare al meglio Douna si è messa a fare la box. Alla fine è riuscita a convincermi e ora posso dire che è davvero una grande attrice. Poi c'è stata anche Majdouline Idrissi (nel ruolo della madre alcolista di Douna) che è venuta dal Marocco a recitare gratis. E l'ha fatto per me. Preciso che in Marocco è una star come Di Caprio!

E Maimouna (Déborah Lukumuena), l'altra amica?

Avevo bisogno di una ragazza forte, quando ho visto Deborah la prima volta ho fatto un salto: era lei! Ma volevo capire “quanto” lo fosse veramente. Per cui ho passato nove mesi a preparare il suo ruolo, senza dirle che l'avevo presa. Sottolineo che entrambe sono attrici. E hanno recitato. Non volevo riprenderle come se stesse. Non era un documentario.

C'è un forte legame con la spiritualità e un grande materialismo al tempo stesso..
L'Islam è diventato il lupo cattivo. Ma è una religione d'amore. Il Corano invita a elevarsi, alla spiritualità. Per me è essenziale, per questo il film inizia con una scena sacra. E le due amiche, che sono due super eroine, esprimono l'una la parte più spirituale l'altra quella più materialista, ma i ruoli sono interscambiabili. Dounia è in una perenne contraddizione, tra una ricerca spirituale e le sue necessità reali. Il titolo del film è un'enfasi sulla femminilità del divino. Per me Dio è sia donna che uomo. Volevo che si dicesse che quelle due ragazze, un'araba e un'africana, fossero divine.
La storia di Houda rimarrà a lungo agli atti del Festival di Cannes. I ringraziamenti più lunghi di sempre, in cui si è concessa di tutto, somigliando sempre di più ai suoi personaggi:
“Non la smettevo di dire al mio produttore “chissene frega di Cannes!”. Ma ora sono felice di essere qui” ha detto Houda il giorno in cui le hanno consegnato il premio Camera d'Or: “Cannes è nostra, ci appartiene! Siamo qui! E' possibile ! Più donne, più donne tra chi seleziona, tra chi decide” delle donne ! Delle donne! Noi” e nel ringraziare il presidente della sezione Edouard Waintrop ha detto “lo dico? Hai il clitoride!”. E poi “nel cinema c'è amore. Io quando giravo ero di una durezza eccezionale. Nessuno aveva il diritto di lamentarsi. Quando ero giovane ho fatto dei mestieri di merda, facevo le pulizie insieme a mia madre. E per questo a loro dicevo “levatevi un dito dal culo”.  

Sabina Ambrogi

di Sabina AmbrogiGiornalista e Flaneuse