Spettacolo

Fuocoammare: sopravvalutato e pompato politicamente. Sfocati i profughi ed escluso dagli Oscar

Espressione di un cinema che preferisce trastullarsi con la propria presunta poesia. Interessato più ad atti politici che al “cinema” e vita altrui.

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fuocoammare film sbarco migrantiAncora non si sa se approderà anche sulle coste californiane in cerca d’oro, ma quel che è certo è che da quando ha salpato da Lampedusa il barcone di Fuocoammare ha collezionato trofei in ogni porto in cui ha attraccato: dall’Orso di Berlino al David di Donatello, dal Felix del cinema europeo fino alla discussa scelta di fargli rappresentare l’Italia alla corsa per gli Oscar.

Il documentario di Gianfranco Rosi è senza dubbio il caso cinematografico dell’anno ma probabilmente anche uno dei film più sopravvalutati dell’ultimo decennio: più importante che bello, ha il merito di prendere di petto una delle realtà più ingombranti e al tempo stesso più invisibili del nostro paese e la colpa di raccontarla nel modo più superficiale, banale ed episodico. Episodico, sì, perché in realtà di tutto tratta questo film, tranne che dei viaggi disperati dei profughi africani verso l’Europa.
Lampedusa, si legge nella didascalia che apre il film, è una minuscola isola a 70 chilometri dall’Africa e 120 dalla Sicilia. Quindi una terra di mezzo, politicamente italiana ma geograficamente africana: ecco perché negli ultimi 25 anni è diventata il “Porto d’Europa” e ha visto sbarcare 400mila emigranti vedendone morire 15mila: disperati in fuga dalla guerra e dalla povertà, capaci di spendere dagli 800 ai 1800 euro per un biglietto di sola andata, il più delle volte diretto alla morte. Perché su 90 che partono, solo 30 riescono ad arrivare vivi alla Terra Promessa. Una strage quotidiana che si consuma sotto i nostri occhi nell’indifferenza generale.

 

Tanto più importante, quindi, che il cinema italiano – tra una commediola da quattro soldi e una masturbazione d’autore parametapolitica, getti lo sguardo su questa tragedia e prometta di raccontarla. E tanto più colpevole, allora, è non mantenere la promessa.


Già, perché in un’ora e 54 minuti di film, Fuocoammare agli sbarchi dei migranti dedicherà al massimo una mezz’ora, peraltro di grande intensità e realismo. Tre le scene fondamentali: la prima è una preghiera gospel dei profughi della Nigeria: mentre i compagni cantano un ragazzo improvvisa una poesia che racconta la loro disavventura: la fuga dal paese in guerra, la durissima traversata nel deserto del Sahara, l’arrivo in Libia, l’emarginazione, la terrificante prigione e infine il viaggio della speranza verso l’Italia. La seconda è il torneo di calcetto tra le rappresentanze dei vari paesi in guerra, vinto dalla Siria. Infine, il soccorso di un barcone in tutte le sue dolorose fasi: dal salvataggio dei superstiti al recupero dei cadaveri, fino alla desolante immagine dell’interno della barca, con i corpi ammassati in una sorta di Auschwitz contemporanea.

 

fuocoammare

 

Tre scene fortissime, ma infilate più o meno a caso all’interno di un film senza né capo né coda, che spende la gran parte della pellicola a raccontare la vita quotidiana degli abitanti di Lampedusa: un’anziana, un bambino, un disc jockey.


Sotto il profilo stilistico, Rosi sceglie la totale omologazione agli stereotipi del documentario contemporaneo: ovvero montaggio crudo – senza dissolvenze e nessun effetto né visivo né sonoro - ma soprattutto nessuna narrazione: perché oggi il documentario che ambisce ad essere considerato un prodotto artistico deve avere grande cura di evitare tutto ciò che verrebbe considerato “televisivo”, ovvero voce narrante e interviste: il regista si limita dunque a fotografare la vita quotidiana dei suoi personaggi senza intervenire in alcun modo, lasciando che lo spettatore si “immerga” nella vita degli altri – anche se questa vita non ha nulla di interessante – e si interroghi sul senso di ciò che sta vedendo.


Il risultato sono film noiosissimi ma che collezionano premi in ogni festival: stereotipo a cui Fuocoammare aderisce scrupolosamente.
Evocando le recensioni-parodia che faceva Fiorello con l’imitazione di Nanni Moretti, potremmo dire: memorabile la scena in cui l’anziana vedova rifà il letto nella camera vuota. E che dire di quella in cui assistiamo alla lenta costruzione di una fionda da parte del bambino che poi si mette a tirare sassi contro gli uccelli. E vogliamo parlare della visita dall’oculista? O della sublime sequenza in cui il ragazzino va a pesca con il padre ma siccome c’è mare mosso si mette a vomitare?


Ma senza dubbio a restare indelebile nella memoria è quello che potremmo ribattezzare il “ciclo delle seppie”, sublime metafora della vita: le seppie appena pescate, agonizzanti; le seppie fatte a pezzi e cucinate dalla nonna; le seppie con gli spaghetti, mangiate dal bambino con tanto di risucchio.


E poi ancora: il disc jockey che alla radio mette la canzone con la dedica, e la casalinga che a casa ascolta alla radio la canzone con la dedica messa dal disc jockey (trovata così geniale, che il regista pensa bene di ripeterla per tre volte nel corso del film).

 

fuocoammare

 

Né si può lodare il rigore stilistico, visto che ogni tanto il regista viene meno alle sue stesse regole per proporre un’eccezione (quando il medico parla delle visite ai profughi non c’è nessun altro, se deduce quindi che sta parlando con il regista in un’intervista velatamente celata). Anche il presunto naturalismo assoluto di cui si diceva prima, qui è palesemente fasullo: i dialoghi tra i personaggi suonano artefatti e non a caso i titoli di testa citano i protagonisti “nel ruolo di sé stessi” quasi ad ammettere che c’è un copione scritto e stanno recitando. Il montaggio è palesemente costruito: la stessa scena viene ripresa – e rifatta - infatti da diverse inquadrature come in un film; i momenti di vita vissuta che vengono mostrati, quindi, non sono affatto così spontanei come si vorrebbe far credere.

 

Difficile, peraltro, trovare una poetica in tutto questo: di certo non si può parlare di un racconto in parallelo tra la vita quotidiana degli abitanti di Lampedusa e quella dei profughi, visto che i lampedusani vengono mostrati in ogni dettaglio più insulso delle loro giornate, mentre i profughi restano ospiti occasionali e raccontati solo ed esclusivamente dal punto di vista dei soccorritori. Lo stesso titolo “Fuocoammare” fa riferimento ai racconti di guerra dei nonni e non alla tragica attualità.


Del ragazzino e di suo padre sappiamo tutto – anche come va in inglese a scuola - mentre i profughi restano comparse senza nome, senza storia, senza dignità. Esattamente come avveniva nell’altro film che si era assunto il compito di raccontare questa tragedia: Terraferma di Emanuele Crialese, che non a caso figura tra i ringraziamenti nei titoli di coda.


Come Terraferma, anche Fuocoammare è un grandioso affresco di natura e di fauna umana che non trasmette nulla: né emozioni, né conoscenza, né consapevolezza. Si resta freddi durante la proiezione e si esce dal cinema esattamente come si era entrati.

 

Dei profughi sentiamo parlare in continuazione ma non li abbiamo mai visti, non abbiamo mai avuto l'occasione di avvicinarci davvero a quel tipo di realtà e di capire in quali condizioni assurde sono costretti a vivere i pescatori che a soccorrere i naufraghi dei barconi si ritrovano incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

 

Siamo abituati a guardare gli immigrati come “massa”, come dei poveri disperati privi di identità e tali li lascia il film. Non ci sono uomini, ci sono solo extracomunitari.

 

fuocoammare gianfranco rosi

 

Entrambi i registi hanno avuto l’ambizione ma non il coraggio, di raccontare una realtà così ingombrante e così invisibile, ma anche la mancanza di curiosità di mettersi davvero nei panni di questi disperati, di trasformare le statistiche in storie umane; entrambi sono espressione di un cinema d’autore incapace di guardare al di là del proprio ombelico e che preferisce trastullarsi con la propria presunta poesia piuttosto che imbarcarsi in un autentico reportage su territori inesplorati; il loro è un cinema interessato più ad atti politici che alla vita altrui.

 

Atti politici che però, trovano puntualmente riscontro in alloro. Non a caso entrambi i film sono stati scelti per rappresentare l’Italia nella corsa agli Oscar per il miglior film straniero, pur sapendo di non avere alcuna possibilità di vincere o anche solo di essere presi in considerazione dall’Academy. Non che manchino, a Los Angeles, lobby di potere e scelte politiche, ma almeno il pudore di premiare film che siano anche belli, gli americani, ancora ce l’hanno. 

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.