Spettacolo

Remake, reboot, franchise: ed Hollywood azionò il pilota automatico

Una coazione a ripetere senza passione né intelligenza, solo la fobia dei flop, che però aumentano…

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Quando negli anni '80, nello spazio di poche stagioni, si diffuse a Hollywood la tendenza a rifare il cinema del passato con un occhio d' autore, si formarono da subito due fazioni. Si trattava del segnale evidente di una preoccupante crisi di creatività del grande schermo oppure del fatto che il cinema, ad un secolo dalla sua nascita, aveva ormai, come il teatro o la letteratura, il suo repertorio, se non il suo canone di classici che, proprio perché tale, come accade oggi da Sofocle a Shakespeare, vengono rigenerati e riportati in vita da ogni nuova messa in scena contemporanea?

La questione ridiventa di singolare attualità oggi, se si considera che si preparano numerosi remake e sequel destinati ad avventarsi nei nostri cinema. Un' autentica armata: più di 50. Di qualsiasi tipo. Dal terzo episodio dei Puffi al sesto di Transformer , da Cinquanta sfumature di rosso al nuovo installament di Jurassic Park. Chiunque si si sia avventurato nell' ultimo film della serie di Alien sa bene a che grado di estenuazione, e stress, di set e di racconto, si può sottoporre una fantastica idea originale (piazzare in un' astronave un mostro raccapricciante, sanguinario e indistruttibile: un mix di horror e fantascienza che ha fatto scuola) e se vi siete imbattuti in Trainspotting 2 non potete stupirvi di cosa può succedervi con Fast & Furious 8 o Transformer 6.

 

A volte il sequel reinventa se stesso affondando prepotentemente le proprie radici nell' inconscio planetario (come lo splendido Mad Max Fury Road di George Miller), a volte rivela qualche fascio inconsueto di sfumature o si avventura per un sentiero più inventivo (come Logan), alcuni seguiti fanno capo all' orizzonte di una saga e ad un mondo narrativo così ricco e articolato da apparire come capitoli originali (è il caso della rinascita della saga di Guerre stellari, dopo l' abbandono di Lucas, in buona parte riuscita), a volte addirittura il remake riprende il bandolo di una matassa che una celebre serie sul grande schermo sembrava aver smarrito per un eccesso di ripetizioni ed esperimenti (come è il caso dei nuovi rifacimenti del Pianeta delle scimmie), ma a volte, troppo spesso, come nell' ennesimo rifacimento di un classico degli anni '30, La mummia, con Tom Cruise, il grado di conflitto tra investimento finanziario e nuove idee a disposizione, budget da serie A e stravaganze e insensatezza e comicità involontaria di serie B, lascia a bocca aperta. Non si tratta di crisi di creatività. È un atto di pura disperazione economica e intellettuale.

Da cosa nasce? La crisi dell' attitudine al consumo in sala, il successo delle serie che hanno ormai sostituito una proposta cinematografica ricca e autorevole in grado di soddisfare un pubblico adulto, la diffusione dello streaming e del downloading e soprattutto l' ingresso di player come Netflix, Amazon, Google, direttamente nella produzione di contenuti, senza bisogno né dei capitali né del know how di Hollywood, sta accerchiando quella che era una volta la più importante industria dopo l' aeronautica del più ricco e benestante paese del mondo. L' unica arma di cui Hollywood dispone per fidelizzare il pubblico internazionale è il "franchise", la parola magica: l’ininterrotta catena di film che da Il signore degli anelli a Harry Potter ha sostenuto i profitti contando sull' attenzione di un pubblico di massa, a volte familiare, perlopiù fatto di teenager. Intendiamoci: le serie sono sempre esistite, prima al cinema che altrove, sin dai tempi del muto.

 

E anche i remake (o i reboot, come si chiamano oggi i remake - quando, partendo dallo stesso intreccio, finiscono per sviluppare o selezionare tratti linguistici o narrativi diversi dalla versione originale). Ma mai come oggi sembrano diventati l' unico vero salvagente di un' industria dove ogni merce è un prototipo e dove il rapporto rischio/profitto è andato sempre più somigliando a quello del gioco d' azzardo. È un caso se i film tratti dai fumetti, che sono sempre stati disponibili per il cinema, sin da prima del cinema, o quasi, siano ormai diventati il vero monopolio dell' immaginario hollywoodiano? Il supereroe è il dispositivo ideale del franchise. E anche l' eroe eponimo del remake. Contate quanti ne sono stati realizzati solo di Batman e l' Uomo ragno, dagli anni '90 ad oggi.

E invece negli anni '80, nell' autunno di una delle stagioni più gloriose di Hollywood, che aveva visto autori come Coppola o Spielberg, Bogdanovich o Friedkin, Cimino o Scorsese, riformare profondamente l' universo dei generi e il rapporto dello sguardo del cinema con il mondo, con capacità di ibridazione sconosciuta di puro immaginario e inaudito realismo, fare un remake significava dilatare i classici dell' intrattenimento a misura di una radicalità visionaria quasi espressionista (La cosa di Carpenter remake della Cosa di Hawks), investire di una stilizzazione postmoderna e romantica le avanguardie (All' ultimo respiro di Jim Mc Bride che era il remake del film di Godard A bout de souffle che inaugurava la nouvelle vague) o semplicemente fare una ossessiva fotocopia dell' originale (Psycho di Hitchcock rifatto da Gus Van Sant) come se fosse una istantanea iperrealista.

Oggi invece ci troviamo di fronte, spesso, ad una coazione a ripetere senza passione né intelligenza, né devozione né rancore: un pilota automatico che non conosce la rotta ma solo la fobia dei flop (che non sono certo diminuiti, anzi). Sembra una reiterazione meccanica o catatonica alla cui base c' è solo la superstiziosa speranza della fedeltá di un pubblico ad una idea o a una storia o a un film. Ma è proprio quella che ci porterá con timore e sospetto a vedere il nuovo remake/reboot/sequel di Blade Runner sperando di riscontrare, nei confronti della memoria dell' originale, solo danni moderati e accettabili.

 


 

Mario Sesti

di Mario SestiCritico e Festival Curator