Spettacolo

Cinema e Rockstar, da Jim Morrison a Freddie Mercury. Sballo e successo

Quando sono troppo santi, quando troppo peccatori. Record di incassi, Aids, esaltazione e rifiuto del nome e delle origini: Bohemian Rhapsody.

di |

Era il 1991 quando uscì The Doors di Oliver Stone; Jim Morrison era morto esattamente da vent’anni e il film contribuì a rinverdirne il mito e a far tornare in classifica i dischi della band californiana.
La somiglianza di Val Kilmer con Jim Morrison – sia fisica, sia vocale - era impressionante, e il cast era arricchito da Meg Ryan (lontana dai suoi ruoli abituali in commedie come Harry ti presento Sally), Frank Whaley (che avremmo trovato pochi anni dopo in Pulp Fiction) nei panni del chitarrista Robby Krieger e Kyle MacLachan – protagonista di Twin Peaks – in quelli del tastierista Ray Manzarek, mentre Crispin Glover - il George McFly di Ritorno al futuro - faceva un incredibile Andy Wharol.
Proprio quell’anno uscì l’ultimo capolavoro dei Queen: Innuendo, al quale fece seguito, dopo meno di un anno, il Greatest Hits II lanciato strategicamente da The Show Must Go On.
Pochi mesi dopo l’uscita di The Doors e pochi giorni dopo quella del Greatest Hits arrivò la notizia della morte di Freddie Mercury, che fu uno shock per il mondo intero, perché fu in quel momento che scoprimmo davvero la tragedia dell’Aids: fino ad allora se ne era parlato come di una malattia rara e strana, quasi una roba da riderci su, basti pensare alla battuta pronunciata da Carlo Verdone in Troppo forte nel 1986: “C’ho l’anticorpi coi contro coglioni: ma magari me venisse l’Aids, la sdereno in due ore. Che ore so’, le 10.30? A mezzogiorno e mezzo l’ho sventrata!”.
Fino a quel momento l’Aids era considerato un virus che colpiva solo tossici e prostitute e ora, all’improvviso, ci riguardava tutti, tanto da diventare la malattia del secolo.


Il primo pensiero che feci, quando seppi della morte di Mercury, fu: “Fra vent’anni ci faranno un film”. Ma ero stato ottimista: in realtà ce ne sono voluti 27, di anni: ma valeva la pena di aspettare.
Bohemian Rhapsody è decisamente un film spettacolare: un piccolo gioiello, al netto delle tante licenze poetiche, la più macroscopica delle quali è che i Queen – nella realtà - non si sono mai separati e l’esibizione al Live Aid che conclude il film non ha rappresentato la riunione del gruppo ma – all’opposto - il culmine del loro successo.
In generale la pellicola forza la mano alla storia per creare maggiore tensione drammatica; ecco allora spuntare il cattivo di turno: Paul Prenter, manager e amante di Freddie, che assume il ruolo della Yoko Ono della situazione, e cioè quello dell’infingardo che filtra, manipola, separa il protagonista dai suoi compagni, arrivando a isolarlo completamente.
Certo Prenter non era uno stinco di santo, visto che è stato colui che, dopo la separazione, ha sputtanato Mercury sui giornali parlando di omosessualità, orge e Aids, ma il film lo carica di ogni genere di colpa, approfittando anche del fatto che è morto anch’egli da quasi trent’anni e non si rischia una denuncia.
Di fatto su Prenter si concentra tutto il male del racconto, abilmente scrollato dalle spalle degli altri personaggi e dei quattro membri del gruppo che appaiono, al contrario, santi e immacolati. Bryan Singer riserva infatti a Mercury lo stesso trattamento che Sorrentino ha riservato a Berlusconi in Loro, edulcorando tutte le parti più scabrose della narrazione. Di fatto i droga party a base di sesso, nani e cocaina per i quali i Queen erano rinomati sono appena accennati e riguardano esclusivamente Mercury, istigato dal perfido amante-manager, mentre gli altri tre musicisti arrivano ad abbandonare scandalizzati le feste.


Nel film non c’è nemmeno l’ombra delle centinaia di amanti della rockstar, che più che un vizioso edonista appare come un inguaribile romanticone sempre innamorato e giusto un po’ megalomane. E se viene sottolineato il merito di aver partecipato ad un concerto benefico come il Live Aid (quantunque i quattro lo avessero scelto per il prestigio e la visibilità e non certo per aiutare l’Africa) non ci sono cenni alle polemiche per i loro concerti nell’Argentina dei desaparecidos o nel Sudafrica dell’apartheid, né viene calcata troppo la mano sulla volontà di Farrokh Bulsara - questo il vero nome di Mercury - di rinnegare le proprie origini: era infatti indiano di etnia persiana, nato in Africa e costretto con la famiglia a emigrare in Inghilterra.
Per questi motivi molti critici hanno parlato di “un film alla Walt Disney”, e proprio questa volontà di celebrare un mito più che di raccontare una storia vera è stata la causa dei tanti conflitti nati sul set che ne hanno complicato la gestazione, durata quasi dieci anni e che ha visto l’abbandono prima del protagonista scelto (Sacha Baron Cohen) e infine dello stesso regista, a poche settimane dalla fine delle riprese.
Tutto questo non ha impedito la realizzazione di quello che in poche settimane è già diventato il film biografico-musicale di maggiore successo nella storia della settima arte, capace di riempire le sale riportando al cinema anche persone che non ci entravano da anni.


D’altra parte la confezione è sontuosa e impeccabile, gli attori tutti straordinari e straordinariamente somiglianti ai personaggi che interpretano, ad eccezione forse proprio di Rami Malek, che - per quanto bravo - a Freddie Mercury somiglia poco cosi mingherlino com’è, forse come qualcuno ha detto è più somigliante a Prince.
Tutta la parte finale del film è ambientata durante l’esibizione dei Queen allo stadio di Wembley per il Live Aid. Una ricostruzione impeccabile e fedele nei minimi dettagli, anche se lo stadio - ad eccezione del palco - è stato ricostruito tutto in digitale. Questo perché quello vero non esiste più: il più celebre stadio del mondo - inaugurato nel 1923 e capace di segnare la storia dello sport e della musica (gli stessi Queen ci hanno fatto il loro concerto più celebre e il leggendario tributo a Freddie del 1992) è stato demolito nel 2003 per farne uno nuovo, senza alcun interesse e rispetto per la storia.
Tornando al film, quello che colpisce, ripensando anche a The Doors (che nella classifica delle biopic delle rockstar deve accontentarsi invece del quindicesimo posto) è la radicale differenza del punto di vista, e di conseguenza, dell’accoglienza ricevuta.
Quello di Oliver Stone su Jim Morrison era un film d’autore, girato da un regista impegnato politicamente, per celebrare un’epoca che era poi quella della sua gioventù, mentre il film di Bryan Singer su Freddie Mercury è - al contrario – l’ultima operazione dell’azienda Queen composta da Brian May e Roger Taylor che da vent’anni si occupa di sfornare i prodotti più disparati per continuare a far fruttare quello che, più che un gruppo rock, è ormai diventato un marchio.


Non a caso, quando uscì The Doors i membri della band ne avevano preso, a vario titolo, le distanze; di fatto l’unico ad approvarlo era stato il batterista John Densmore (che compare anche in una piccola parte), mentre Robby Krieger dopo aver suonato nella colonna sonora aveva manifestato la sua delusione per il risultato finale, e Ray Manzarek, letta la sceneggiatura, si era rifiutato di collaborare accusando il regista di aver fatto passare Jim per un “pazzo e un ubriacone”; insomma la colpa di Stone era esattamente agli antipodi rispetto a quella di Singer, avendo accentuato troppo la vita dissoluta e le ombre sulla personalità del protagonista.
D’altra parte, l’autore di Platoon e Nato il 4 luglio era avvezzo più a raccontare figure sporche e maledette che eroi, mentre Bryan Singer è famoso proprio per film di colorati supereroi, come X-Men e Superman returns.
Nel caso di Bohemian Rhapsody, poi, i due membri rimasti del gruppo (dopo che John Deacon si è ritirato a vita privata) sono i veri autori del film: lo hanno promosso e prodotto e hanno scelto gli sceneggiatori e il regista, licenziandoli poi entrambi, hanno partecipato alle riprese dando indicazioni agli attori su come muoversi e come suonare; più che un film sui Queen, quindi, Bohemian Rhapsody è un film dei Queen, o almeno di ciò che ne rimane.


Non c’è dubbio, però, che Freddie Mercury - così attento a creare e curare la propria mitologia tanto da gestire la sua stessa morte (girò l’ultimo videoclip durante la malattia, con il proposito di farlo uscire solo dopo la sua dipartita e registrò dei brani da pubblicare postumi) - sarebbe assolutamente soddisfatto di questo film. In cui però, paradossalmente e assurdamente, non viene mai fatta ascoltare per intero la canzone che gli dà il titolo e la stessa struttura drammaturgica, letteralmente sostituita - nei titoli di coda - da The show must go on che, invece, in molti già vedono come titolo di un possibile seguito. Di sicuro sono contenti i produttori. Il costo del film è stato di 52 milioni di dollari, l’incasso attuale (solo delle sale cinematografiche) lo supera di 11 volte e continua a salire nel mondo. In Italia, probabilmente, sarà il film più visto del 2018.
Nel frattempo, a 25 anni dal film su Charlie Chaplin di Richard Attemborough con Robert Downey Jr. e Geraldine Chaplin nel ruolo di sua nonna, sta per arrivare quello su Stanlio e Ollio di John Baird, con Steve Coogan e John C. Reilly.
 

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.