Spettacolo

Le ragazze ai Mondiali di calcio, i ragazzi a casa a fare la calzetta

Calcio:veline e successi femminili contro i flop maschili.

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“Basta, non si può parlare sempre di dare soldi a queste quattro lesbiche!”.
Così parlò nel 2015 Felice Belloli, successore di Carlo Tavecchio come presidente della Lega Nazionale Dilettanti. Lo stesso Tavecchio, da parte sua, poco prima di arrivare ai vertici della Federazione Italiana Calcio, aveva definito le donne “handicappate” in quello sport.
A distanza di quattro anni il meme più diffuso sui social è “le ragazze a fare il mondiale, i ragazzi a fare la calzetta”.
All’indomani del risultato peggiore ottenuto dalla Nazionale maschile ai mondiali da 60 anni a questa parte (la mancata qualificazione in Russia), quella femminile sta facendo sognare gli italiani alla Coppa del Mondo in corso in Francia. E all’improvviso quelle “quattro lesbiche” evocate da Belloli si sono trasformate in eroine nazionali e celebrità mondiali: basti pensare che il capitano Sara Gama è diventata addirittura una Barbie; alla faccia dei sessisti e anche dei razzisti (ha la colpa di essere nata in Friuli da padre congolese).
Eppure, nonostante tanto clamore, le calciatrici italiane vengono ancora pesantemente discriminate, e a prescindere dai commentatori che ne invocano il ritorno in cucina o quantomeno alla pallavolo arrivando a definire il calcio femminile “contro natura”, sono gli stessi organismi sportivi che continuano a relegare le donne tra gli sportivi dilettanti.


E non è un problema che riguarda solo il calcio, ma la maggior parte delle discipline sportive, con tutto ciò che ne consegue in termini di previdenza sociale, assistenza sanitaria, maternità e contratto di lavoro.
La legge che regolamenta l’attività sportiva in Italia – che risale al lontano 1981 – chiede infatti al Coni e alle Federazioni di decidere quali sport siano professionistici e quali no. E ad oggi il diritto al professionismo viene riconosciuto solo a quattro discipline: calcio, golf, serie A di basket e ciclismo; e solo per le categorie maschili.
La ragione è che lo sport femminile è troppo povero e non assicura abbastanza soldi per essere preso in considerazione; idem per gli altri 56 sport maschili considerati dilettantistici.
Luisa Rizzitelli, presidente dell’Associazione nazionale atlete, ha sottolineato come ad oggi il massimo che il genere femminile sia riuscito a ottenere negli organismi sportivi è la vicepresidenza della Federbasket e la presidenza del Coni di Trento. Complessivamente nei consigli federali siedono solo 57 donne su quasi 500 posti, mentre nella “Walk of Fame” lanciata dal Coni figurano 13 donne su 100 atleti.
L’unico passo in avanti, finora, è stato fatto dal governo Gentiloni, che ha inserito nella Finanziaria una norma che crea un fondo per la maternità delle atlete per un valore di 2 milioni di euro; una toppa in un sistema in cui le sportive, se aspettano un bambino, perdono qualsiasi diritto, con tanto di clausole antigravidanza inserite nei contratti.


Non può più aspettare una riforma che consenta agli atleti di sport “minori” di svolgere un lavoro con pari diritti e dignità. Finora, per molti, l’unica soluzione è stata entrare nei gruppi sportivi militari; ma è evidente che quella militare è – o dovrebbe essere – tutt’altra vocazione.
Una grande novità di quest’anno, che ha preceduto di pochissimo i successi delle azzurre in Francia, è stato il passaggio della Serie A del calcio femminile dalla Lega nazionale dilettanti alla Federazione Italiana Giuoco Calcio.
Un passaggio storico, avvenuto in corso di campionato e spinto da accese proteste, con giocatrici che minacciavano di non entrare in campo e le pressioni di grandi club come Milan e Juventus.
Nonostante questo è rimasto il tetto massimo di guadagno per le calciatrici donne fissato a 30mila euro: praticamente spiccioli rispetto a quello che portano a casa i loro colleghi maschi.
“Si tratta di un limite culturale squisitamente italiano” commenta Arianna Marchesi.
Perugina, classe 1986, Arianna gioca con il Perugia Calcio e ha militato nella Nazionale under 19, con cui ha disputato tre europei e un mondiale.
“In America, ma anche nel resto d’Europa, il calcio femminile è seguito come quello maschile: ho un amica che gioca nel Bayern Monaco e lì non ci sono differenze tra uomini e donne, e la partita Atletico Madrid – Barcellona ha totalizzato 60mila spettatori”.


“In Spagna – continua Arianna - non esiste un tetto massimo di guadagno per le calciatrici, quindi la squadra che ha più budget può permettersi di avere le migliori. Per questo è molto difficile che un’atleta straniera venga a giocare in Italia, e ovviamente questo non aiuta il calcio femminile italiano a crescere. Ed è una cosa che ci penalizza anche quando andiamo a giocare in Champions League, perché troviamo come avversarie squadre che a differenza nostra hanno un calibro internazionale”.
Le cose, però, stanno cambiando: “Mentre fino a un paio di anni fa le squadre di calcio femminili appartenevano a piccoli circoli dilettantistici, oggi c’è la tendenza di tutti i grandi club a dotarsi di una formazione femminile”. Arianna, per esempio, ha militato per molti anni nella Grifo Perugia, che lo scorso anno è stata acquisita dal Perugia Calcio.
“Ora stanno finalmente entrando anche gli sponsor e il mondiale di Francia ha avuto una risonanza incredibile. Se ne parla nei bar mentre fino a qualche tempo fa eravamo davvero confinate tra pochi appassionati”. “La speranza – continua la calciatrice perugina – e che ora anche la nostra serie B e le altre categorie possano essere parificate a quelle maschili”.


Eppure c’è chi continua a sostenere che una partita tra donne è fondamentalmente brutta da vedere e che tutto questo clamore sia in realtà di stampo ideologico.
“Non è più brutta: è diversa. Non è meno spettacolare ma senza dubbio a livello fisico la differenza è abissale e cambia molto la velocità di gioco. Quindi quando si guarda una partita di calcio femminile bisogna prepararsi a vedere qualcosa di molto differente rispetto a ciò a cui siamo abituati”.
Quanto allo stereotipo della calciatrice mascolina? “E’ sbagliato: anche le ragazze della nazionale sono molto carine, femminili, truccate. La più forte calciatrice del mondo, che è brasiliana, entra in campo con il rossetto”.
Non c’è il rischio, però, che quando intorno al calcio femminile gireranno tanti soldi si finisca per perdere l’anima, come è successo nel settore maschile? In fondo se Arianna è perugina e gioca col Perugia, nell’Italia dominata dal calcio mercato si è arrivati ad avere squadre senza nemmeno un italiano e campioni diventati quasi più testimonial degli sponsor che atleti.


“Il calcio femminile ha fame di risultati: questo mondiale è il sogno di tutti noi, perché facciamo molti più sacrifici dei maschi, ai massimi livelli prendiamo meno soldi di un operaio e quindi siamo mosse da una passione molto più grande. Anche perché se il 90% dei bambini gioca a calcio, per le bambine è ancora molto difficile cominciare”.
La stessa Arianna ha dovuto iniziare giocando insieme ai maschi perché non c’erano scuole calcio femminili.
“All’inizio mi prendevano in giro, ma poi mi facevo rispettare in campo. I nostri avversari ridevano di noi vedendo una ragazzina, ma la biologia era dalla mia parte: le femmine sviluppano prima, quindi io a dodici anni ero nettamente più forte fisicamente rispetto ai miei coetanei maschi e avevo una grinta fuori dal comune”.
A tredici anni però, Arianna si è dovuta già confrontare con gli adulti: “Il regolamento prevede squadre miste fino a 13 anni. Non essendoci settori giovanili femminili io sono dovuta passare direttamente alla prima squadra. Oggi le cose sono cambiate: il Perugia – per esempio – ha tutto il settore giovanile sin dai pulcini, e se una bambina di otto anni vuole provare a giocare a calcio da noi può trovare tecnici molto preparati: abbiamo anche campionati nazionali under 15 e la nostra Primavera quest’anno si è giocata nientemeno che lo scudetto con il Torino”.
Inevitabile quanto scema è, a questo punto, la domanda finale: se i calciatori sposano le veline, le calciatrici chi sposano?
Lapidaria la risposta: “Sicuramente persone con un cervello”.
 

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.