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Lo chef Kotaro Noda e il filetto di Kobe - una rarissima carne di manzo che viene massaggiata con la birra - falso: solo marketing!

Intervista esclusiva alla stella Michelin arrivato dal marketing e dal Giappone.

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Il boom della cucina italiana nel mondo non accenna a placarsi. Anzi, è in crescita ovunque grazie ai nostri straordinari chef che sono “ingaggiati” dalle grandi e lussuose catene d’hotel internazionali, sia per consulenze di nuove aperture sia per affidare ai nostri la cucina dei loro prestigiosissimi ristoranti.
Ma, se i nostri cuochi invadono il mondo, molti giovani e bravi chef stranieri fanno il percorso inverso, lasciando i loro paesi per venire in Italia a “contaminarsi” e apprendere i segreti della nostra creatività e capacità di esaltare al massimo il gusto degli alimenti, anche di quelli “poveri”.
I gourmet che seguono l’evolversi delle novità alimentari che arrivano da tutto il mondo nelle nostre cucine sanno di che cosa si tratta: per esempio, quando si evoca il filetto di Kobe - una rara e costosissima carne di manzo che rappresenta la quintessenza del piacere a tavola per la sua bontà - si crede che si chiami così perché il bovino viene massaggiato con la birra, secondo la leggenda tramandataci, o divulgata ad arte, dal marketing giapponese. Invece, pochi sanno che Kobe è il nome dell’isola dove si allevano questi bovini e dalla quale prendono il nome.

Kobe è anche l’isola dove è nato Kotaro Noda, lo chef giapponese che in questo momento è uno dei punti di riferimento per i gourmet romani. Il tam tam batte per lui le note che lo divulgano nell’empireo dei epicurei internazionali per la genialità e godibilità dei suoi piatti, proposti nella carta del “Bistrot 64”. E’ un luogo di piacere assoluto per l’armonia che ricorda gli spazi armonici del Feng Shui, la filosofia giapponese che evoca il flusso dell’energia vitale e del benessere. Il Bistrot è stato creato da Emanuele Cozzo, uno chef-imprenditore, che ha passato il testimone della cucina a Kotaro Noda, già stella Michelin nel ristorante l’ “Enoteca la Torre” di Viterbo e approdato nel cuore della Capitale per un “challenge” che ripropone la tradizione dei piatti romani con una interpretazione che attinge alla cultura del suo Paese. Si crea così una fusion complessa e di grande impatto gustativo per una clientela di gourmet diversa ed esigente.
Il menu del “Bistrot 64” riunisce nei suoi piatti colori, profumi e sapori della nostra terra, che Kotaro ha saputo tradurre con ricette di impronta romana, contaminati da un sapore nipponico, realizzati con la raffinatezza delle tecniche della cucina giapponese. Il tutto si traduce in una cucina dove la tradizione e l’innovazione si incontrano, deliziando non solo il palato, ma anche gli occhi per la composizione architettonica dei piatti, come lo “Spaghetto di patate al burro e alici”, composto nel piatto in maniera indescrivibile ma di grande effetto visivo e, naturalmente, super godurioso per il palato. E così anche i “Lombrichelli con spinaci, cavolo, cappuccio e baccalà mantecato”; e il “Tempura di cardo su fonduta di taleggio di bufala e granita di ostriche”; la “Tagliata di presa iberica e Lapsang Souchong” . E’ con queste delicate licenze creative che Kotaro dimostra di aver raggiunto la maturità dei grandi chef e che fanno la differenza grazie al talento di cui è dotato.

 



La sua storia nel mondo del food ce la racconta all’interno della sua cucina, mentre prepara le basi per le sue creazioni.

A 21 anni mi sono laureato in marketing a Kobe, una piccola isola vicino a Hiroshima ma avevo già deciso di fare il cuoco perché mi piaceva e mi divertiva cucinare. Così ho lasciato perdere la laurea e mi sono dedicato alla cucina. La prima esperienza importante è stata proprio a Kobe, con Gualtiero Marchesi. In quel momento Gualtiero Marchesi era la cucina italiana in Giappone ed Enrico Crippa era il suo sous-chef a Kobe. Con Crippa ho appreso la filosofia che aveva Gualtiero Marchesi per la cucina e mi ha insegnato la professionalità che è fondamentale per un cuoco. La sicurezza che ho oggi nel mio lavoro la devo a lui.

Quando hai cominciato a inserirti nel circuito della grande cucina, o, comunque, in quello che consideri una buona cucina e perché sei venuto in Italia e non in Francia o in altri Paesi?

Sono venuto in Italia come turista ma attento a capire quello che stava succedendo nella vostra tavola in espansione mondiale. Mi sono innamorato del vostro Paese e della sua cucina, soprattutto quella che voi chiamate casalinga: mangiavo dappertutto benissimo. E’ una cucina leggerissima, mentre in Francia ho trovato una cucina molto elaborata e pesante: buona, ma non era per me.

Raccontami del tuo percorso professionale. Quando hai cominciato a inserirti nel circuito della grande cucina, o, comunque, in quello che consideri una buona cucina?

13 anni fa, ho lavorato con chef come Alessandro Breda, Andrea Berton, Paola Budel, Paolo Lo Priore. Già si vedeva la diversità nel loro modo di cucinare, trattare la materia prima. Infatti, oggi sono tutti diventati grandi chef. Alcuni avevano imparato da Marchesi, altri erano andati in Francia e poi tornati in Italia avendo capito come cucinare e ognuno ha dato la sua interpretazione della cucina italiana.
A quel tempo io non ero maturo, ma l’esperienza con loro mi ha permesso di imparare moltissimo. Tutti i grandi chef hanno una cucina personalizzata. Anch’io faccio cucina italiana, ma sono giapponese e quindi posso dire che la mia cucina è anche giapponese. La stessa cosa per gli chef italiani che, pur usando anche prodotti giapponesi, fanno sempre cucina italiana. Il mondo si sta globalizzando e, alla fine, quello che fa ciascun chef è la sua cucina nella quale, certo, conta sempre da dove viene, gli ingredienti che usa, la materia prima che trova sul territorio.
Io non vedo tanta differenza tra Spagna, Francia e Italia, perché la materia prima è mediterranea, perciò uguale. E’ l’interpretazione che è diversa. L’importante è che gli chef abbiano le caratteristiche della cucina tradizionale insieme all’innovazione.


Anche se a detta di Scabin, altro grande chef, è la personalità dei grandi cuochi a reinterpretare la tradizione e non quello che c’è nel piatto. Parliamo allora di cultura gastronomica. Cosa hai trovato di diverso tra quella giapponese e quella italiana?

Principalmente il condimento perché le verdure e il pesce sono quasi uguali. In Italia, per esempio, i condimenti principali sono l’olio d’oliva e il sale, mentre da noi è l’essenza di soia. Quindi il sapore è diverso. La materia prima, pur essendo quasi uguale, varia per il sapore, perché qui c’è il sole e le verdure crescono in modo diverso mentre il pesce, per esempio, si trova buono sia in Giappone sia in Italia.

 



Nei tuoi piatti, si avverte la tua cultura asiatica con la creatività italiana.

Anche se sono in Italia da 13 anni, sono sempre rimasto con la mia mentalità. Questo significa anche la leggerezza in cucina: non sono abituato a “bere” olio, quindi le cose che faccio hanno un tocco diverso

Nei piatti questo si avverte?

A volte sì e a volte no.

Hai avuto una stella Michelin nel ristorante dove eri fino a poco tempo fa, ma Roma è una piazza molto difficile e sei circondato da tanti colleghi giovani e talentuosi. Come pensi di inserirti in questo gruppo ristretto di grandi chef?

Mi rendo conto della difficoltà. La carta vincente è sicuramente la cucina tradizionale romana. C’è chi la interpreta in maniera corretta ma in “modo diverso”. Io voglio sorprendere cucinando le stesse cose ma con una interpretazione orientale, giapponese. E’ un’operazione difficile perché la cucina italiana, quella tradizionale, ha un giusto equilibrio, quasi minimalista, quindi cerco di proporre la mia diversità senza distruggere questi equilibri.. –

Qual è il tuo sogno nel cassetto?

Aprire un mio ristorante dove posso decidere tutto io.

A proposito di Kobe, hai detto che il famoso manzo, al contrario di quello che si crede, non viene massaggiato con la birra?

Infatti, è una storia completamente inventata, magari affascinante dal punto di vista commerciale, ma non vera.

Jerry Bortolan

di Jerry BortolanReporter, giornalista di viaggio ed enogastronomico.