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New York e la cacio e pepe onnipresente. La cucina romana li batte tutti

Ristoranti orientali, spagnoli e fusion e la difficoltà di trovare «qualità-italiana». Intervista all’"eccellenza ristorativa della tradizione".

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Andare a New York per vacanze o per affari è sempre molto piacevole e stimolante. In nessuna città al mondo si è contagiati da quella piacevole frenesia che dà il camminare nelle strade di Manhattan mescolandosi tra la gente che non si ferma mai e sentirsi “in”. Andarci per le feste di Natale o solo per l’ultimo dell’anno è il massimo. Quest’anno poi si stanno organizzando stupefacenti eventi in grandi hotel con lusso e glamour, nelle piazze e strade, tutte super-illuminate come l’Empire State Building che festeggerà la fine del 2018 con una coloratissima illuminazione a LED che si accenderà cinque minuti prima della mezzanotte per scintillare su tutta Manhattan fino all’alba.
A New York tutto è estremo, sia che si tratti di una scultura posta all’entrata di una hall – come quella di Botero che troneggia nell’atrio del Time Warner Building – o del più straordinario e originale market-food, situato nello stesso building, dove basta scendere di un piano con la scala mobile per trovare e sperimentare quasi tutte le cucine etniche del mondo. Ed è nella movida enogastronomica che si vanno a cercare le novità per il piacere del palato e il divertimento.
Di appuntamenti stellari ce ne sono diversi che esercitano il fascino dell’esclusività, come Masa, il ristorante giapponese più gettonato della “upper class”: ci vogliono diverse centinaia di dollari a persona per un giro di crudi e carne di Kobe. Nella grande mela si può sperimentare di tutto, dalle provocazioni della cucina Fujon, che coniuga genialità per il piacere del palato e dell’occhio, grazie agli straordinari format degli ambienti dei ristoranti, ai ristoranti d’autore (nel senso dell’autenticità legata alle tradizioni dei Paesi che la propongono). L’ «Antica pesa» a Berry Street, a Brooklin, propone la vera cucina romana come il gemello storico di Roma: «l’Antica Pesa» di Trastevere, dove i vip del mondo, riconoscibili nelle foto che tappezzano le pareti dell’entrata, sono transitati e transitano anche solo per provare piatti come la succulenta Matriciana, o la gustosissima Cacio e pepe che escono dalla cucina insieme ad altre leccornie della tradizione romana realizzate dallo chef Simone Panella, fratello del dinamico manager deus ex machine, del ristorante in America. E’ appena arrivato a Roma per ritirare il premio assegnatogli dalla Guida Gastronomica di Repubblica che lo cita come una delle eccellenze ristorative legata alla tradizione sul territorio italiano e, ora, nel mondo. Con l’occasione, approfittiamo per fargli qualche domanda su come in America giudicano le nostre creatività legate alle antiche tradizioni culinarie, che cosa rappresenta la nostra cucina a New York e che cosa non manca mai nella ristorazione che parla italiano.

Facile - dichiara Francesco - A New York, nei ristoranti italiani, non manca mai la pasta cacio e pepe. La cucina italiana a New York sta avendo un grandissimo appeal, c’è tanta richiesta di cucina italiana, tante eccellenze italiane delle nostre tradizioni si stanno muovendo con il loro brand verso gli Stati Uniti, un Paese che regala tantissime opportunità. Noi, che abbiamo già fatto questo percorso, guardiamo sempre con il cuore aperto la nostra città e cerchiamo di fare del nostro meglio per rappresentare Roma e i romani al di là dell’Oceano. Questo è un po’ una piccola premessa per quanto riguarda il cacio e pepe. Di tanto in tanto, negli Stati Uniti, ci sono dei trend che diventano qualcosa di incredibile. Sono due anni che il cacio e pepe la fa da padrone, considerando che quasi tutti i ristoranti italiani, anche quelli che non parlano di cucina romana, hanno sempre lo storico piatto della nostra amata Roma nei loro menù. Questo perché - osserva Francesco - la cucina romana, grazie ai suoi ambasciatori, ha avuto la forza di far provare questo piatto a tantissima gente che è rimasta folgorata dal suo gusto. Sono circa dieci anni che il cacio e pepe è uno dei piatti più amati. E ora, a New York, iniziamo a vedere tanti ristoranti che propongono anche l’amatriciana. Scordatevi il guanciale, quello nostro, scordatevi le ricette nostre. Comunque, se ne parla, e si legge il nome dello storico piatto. Da qualche mese si sta affacciando nel panorama gastronomico della grande mela anche la classica ricetta alla gricia. E questo non fa che fare un gran bene a Roma e al suo brand.

Alla domanda su quali sono invece le altre cucine che in America ci inseguono, Francesco Panella osserva che: «in testa alla classifica, come desiderio per andare a cena, purtroppo non c’è la cucina italiana. Negli ultimi 5-6 anni nel panorama internazionale la cucina italiana registra un appannamento; si colloca al secondo, terzo posto dopo gli exploit della cucina spagnola, poi quella peruviana, poi quella argentina, insomma diversi tipi di cucina si stanno affacciando e le novità la fanno un pò da padrone. Ma il classico ristorante che fa «shering place» è quello dell’oriente. Cina, Giappone sono quelli che vanno più di moda, e sono le cucine più remunerative».
Perché – si domanda Francesco - non ci sono grandi brand di cucina italiana come succede in altri casi? «Sulla base della mia esperienza negli Stati Uniti – afferma - mi sono dato questa spiegazione. Perché la cucina italiana è difficile da fare, perché c’è un amore dietro e una passione pazzesca, perché c’è una storia che noi vogliamo continuare a rispettare. Noi abbiamo un amore per quello che facciamo che è passione, che è tradizioine, che è stile di vita che gli altri non hanno.

Per esempio, proviamo a fare un ristorante di sushi: mettiamo un po’ di riso, un po’ di pesce crudo e il sushi è fatto. Cioè si replica. Replicare la cucina italiana con l’amore che vogliamo noi per le cose che vogliamo noi non è facile. Ti racconto questo anneddoto. A Brooklin, il primo anno del mio ristorante, ho portato l’acqua di Roma con dei container per fare il cacio e pepe e mi hanno preso per matto. Alla fine mi sono reso conto che questa differenza l’americano non la capiva e ho lasciato perdere. L’amore verso tutto quello che è la nostra cucina la rende difficile, rende difficile seguire tutte le sue sfumature e questo impedisce di farla diventare un brand, soprattutto se sei all’estero».

Da parte mia osservo che una volta la cucina di tradizione era un pò pasticciata, contaminata perché dovevi scendere a dei compromessi che non erano nostri. Il passo successivo è stato di trasformare attraverso la tecnica qualcosa da niente in qualcosa di saporito. Gli americani lo hanno capito e accompagnato questo passaggio?

Lo hanno capito molto bene – concorda Francesco - perché ormai è l’era dei social media, si è tutto velocizzato e questa trasformazione è stata capita. C’è voluto anche un pò di tempo per parlare con le persone, io e tanti bravissimi colleghi siamo riusciti a farlo capire.

Ritornando sul fatto che comunque il successo è minore rispetto ad altre cucine, Francesco Panella osserva che c’è una grandissima comunità orientale negli Stati Uniti e l’americano ama quel tipo di cucina. Ma come sono i prodotti?

Per noi – risponde - questo è un problema: se voglio un carciofo, il carciofo non c’è; la puntarella, i pomodori nostri non ci sono. Allora, io negli Stati Uniti devo essere creativo perché questi prodotti posso solo sognarli. Certo che invidio gli chef italiani che possono avere il meglio dei prodotti della nostra terra che è unica. Noi dobbiamo essere molto più creativi degli chef che lavorano in Italia. Comunque, proponendo tutto il nostro repertorio di piatti storici riscontriamo un grande successo anche presso i gourmet americani.

E per chi vuole sentirsi a casa, per la qualità del cibo, stando invece a New York fuori dalla frenetica movida festaiola che invade la città, sicuramente a Brooklyn sa dove andare.
 

Jerry Bortolan

di Jerry BortolanReporter, giornalista di viaggio ed enogastronomico.