Spettacolo

Intervista esclusiva al cantautore Pino Donaggio. 80 milioni di dischi venduti solo con 1 canzone. Compositore di colonne sonore per Brian De Palma e film internazionali

Dusty Springfield gli deve il successo ed Elvis Presley cantava la sua canzone in inglese. Ora vorrebbe fare il balletto e molti progetti.

di |

Pino DonaggioPino Donaggio: cantautore e compositore, un musicista con una carriera iniziata prestissimo e ancora impegnato su diversi fronti.

Una chiacchierata con questo personaggio incredibile, che ci regala un’intervista d’eccezione.

Pino, innanzitutto grazie mille del tuo tempo. E’ un onore essere qui a Venezia a parlare con te del tuo lavoro, della tua carriera. Raccontaci come tutto ebbe inizio.
Provengo da una famiglia di musicisti: mio padre, mio nonno, mio zio fu primo flauto alla Fenice. Così anche i miei nipoti e cugini. Fin da piccolo il mio sogno era diventare solista di violino. Iniziai a studiare conservatorio a Venezia, avevo solo 11 anni, poi continuai a Milano dove ebbi la fortuna di vincere una borsa di studio. Lì iniziai a studiare Verdi col mio maestro di allora, con I solisti Veneti ed il grandissimo direttore d’orchestra Claudio Abbado.

Ma la musica classica non era la sola che mi piaceva e conoscevo, mio padre suonava in un’orchestrina con cui provai a cantare, ma mio padre non era molto d’accordo, perché voleva che continuassi a studiare. Lui non ha avuto la possibilità, io sì.
D’estate mi recavo sempre in montagna ad Auronzo di Cadore, dove ho una casa dal ’66 e dove mi capitò anche di vincere una gara di canto.

 

A 13 anni suonavo in un gruppo classico, il mio insegnante mi diceva sempre: “suoni come un diplomato anche se ti manca ancora molta tecnica”. Ero l’unico ragazzo non diplomato che suonava con i Solisti Veneti e Abbado.

Quando avevo 17 anni nei miei viaggi Venezia-Milano mi dilettavo scrivendo testi. Una mattina pensai di andare da qualche discografico, quando incontrai per caso Bruno Pallesi che volle sentire due pezzi cantati al piano. Così Pallesi cantante e produttore discografico molto attivo negli anni ’50 mi portò dalla casa discografica Curci presentandomi come il nuovo Paul Anka. Apprezzato, firmai un contratto.  Era il lontano 1959. Da lì tutto ebbe inizio. Purtroppo il mio insegnante di violino non mi volle più a Milano visto il successo che stavo riscuotendo come cantante, così continuai a Venezia con un altro insegnante, finendo il conservatorio dando il saggio conclusivo nella mia città natale.

 

 

San Remo ha significato molto per te. Ti ha accompagnato per molti anni della tua vita, è stato un palco decisivo per l’inizio del tuo successo. L’anno scorso un premio importante! Ce ne vuoi parlare?


Avevo 19 anni la prima volta che andai a San Remo con Come Sinfonia (1961). Una canzone che riscosse molto successo devo dire.

L’anno scorso a San Remo mi hanno dato un premio alla Canzone, per i 50 anni della canzone, Io che non vivo (senza te) che portai al Festival nel 1965, con 80 milioni di dischi venduti. Ovviamente ne sono molto felice e orgoglioso, quindi è un premio che mi dà molta soddisfazione.

Sono stato più volte a San Remo: come cantante e anche come membro della commissione musicale, ai tempi di Elisa quando vinse con la canzone Luce nel 2001.

 

Il tuo successo maggiore, la tua canzone di punta, che moltissimi cantanti hanno amato, “rubato”. Il brano diventa virale e fa presto il giro del mondo: Io che non vivo (senza te).  Ce ne vuoi parlare?


Da ragazzino imitavo Elvis, prendevo i suoi dischi e iniziavo a cantare. Poi una chiamata che mi ha riempito di soddisfazioni: i miei editori diedero la notizia che la mia canzone era diventata parte del repertorio di Elvis, in inglese ovviamente. Quando Io che non vivo era a San Remo lo stesso anno c’era Dusty Springfield, che però fu eliminata. Si è emozionata ascoltandomi e ha cercato il mio disco, trovandolo fortunatamente in un negozio. Così lo portò con sé in Inghilterra.

In 3 settimane vendette 1 milione di copie  con la mia canzone in inglese You Don’t have to Say You Love Me. Dopo 20 anni da quel momento ci siamo rivisti a New York, mi ha ricevuto subito e mi è letteralmente saltata addosso, dicendomi che era merito mio se ha riscosso così tanto successo. La canzone riscosse successo in tutto il mondo e venne cantata da molti artisti di fama internazionale. Ne fui molto lusingato.

 

 

Poi hai deciso di cambiare. Come mai? E cosa ti ha spinto a diventare compositore di colonne sonore di film?


In realtà è nato tutto per puro caso. Incontrai il produttore regista Ugo Mariotti su un vaporetto a Venezia. Allora stava lavorando con Nicholas Roeg e fu così che mi presentò al regista, che mi chiese di fare la colonna sonora del thriller Don’t look now (1973). Fu un successo: giudicato dalla stampa inglese come la colonna sonora dell’anno.

Poi una chiamata inaspettata: il regista Brian De Palma mi chiese di lavorare alla colonna sonora del celebre film Carrie, lo sguardo di Satana (1976). Brian aveva lavorato con Bernard Hermann, che adorava ma purtroppo morì mentre lavorava a Taxi Driver nel 1975. Un suo amico critico passando per Londra comprò il disco del film Don’t look now, gli piacque subito pensando che fossi adatto al genere di Brian, così glie lo fece ascoltare. Brian, dopo aver anche guardato il film un paio di volte, mi fece chiamare dal montatore Paul Hirsch che parlava italiano chiedendomi se fossi interessato a lavorare alla colonna sonora di Carrie. Ovviamente accettai ed iniziammo con un approccio un po’ particolare, perché allora non parlavo inglese. Mi fece dormire nel suo studio e la mattina c’erano seri problemi di comunicazione anche per fare colazione.

Comunque la musica si faceva capire senza problemi e da allora è iniziata una stretta collaborazione e amicizia. Però con lui è sempre stato un genere solo: sesso, suspense e thriller, non ha mai voluto che mi dedicassi ad altri generi.

 

Hai avuto una carriera lunghissima e ti auguriamo di portare a compimento tutti i tuoi nuovi progetti, ma cos’ è che ti piacerebbe fare, che non hai ancora avuto modo di sperimentare?


Beh mi piacerebbe molto lavorare ad un Balletto. Mi definisco un artista eclettico: ho studiato musica classica e canzoni hip hop sin da piccolo. Lavoro per la tv ed il cinema. Ho sperimentato molti generi diversi anche nel cinema stesso, ma direi che il balletto mi manca seppur il film con la mia colonna sonora girato dal regista Herbert Ross, Giselle, faceva danzare ballerini sulle mie note, così come la celebre ballerina Carla Fracci fece sulle note di Carnevale a Venezia.

Diventi molto richiesto e decidi di specializzarti in horror, così vieni contattato da Lauren Bacall per Un’ombra nel buio e da Dario Argento per film come Trauma e Déjà vu. Quello che ti contraddistingue è che sperimenti, che non sei fedele ad un unico stile ma ti sei sempre messo in gioco lavorando anche a commedie, come Non ci resta che piangere (Benigni & Troisi) e Il mio West (Pieraccioni & Bowie) e temi importanti, come i due film di Giuseppe Ferrara Il caso Moro e Giovanni Falcone. Poi con Liliana Cavani lavori a Interno berlinese e Dove siete? Io sono qui. Questi sono solo alcuni dei tuoi innumerevoli lavori. Hai lavorato con moltissimi artisti, ma ce ne sarà uno che ti ha dato più soddisfazioni?


Beh suonare col grande maestro Abbado quando ero giovanissimo sicuramente. De Palma mi dava molto tempo per scrivere i pezzi per i suoi film, senza mai pormi limiti nel budget quindi mi sono sempre sentito libero senza troppe pressioni e poi mi piacciono molto i registi con le idee chiare e lui è uno di questi. Per il suo film Carrie per esempio mi ha dato quasi 3 mesi. E poi gli americani hanno un diverso modo di lavorare: il fatto di non avere limiti di budget aiuta molto la tua arte ovviamente, in Italia spesso è limitato e quindi è difficile creare con due strumenti per esempio.

 

 

Suoni ancora il violino oppure la tua passione e il tuo sogno li hai accantonati per dedicarti alla tua brillante carriera?


Non ho più suonato il violino. Provavo col violino a volte per dei film. Sono passati 40 anni e si sa, quando viene a mancare la pratica purtroppo ci si dimentica della tecnica.

Ho continuato a suonarlo fino a 30 anni più o meno poi la mia vita mi ha portato ad altro come ben sapete.

Adesso molte cose sono cambiate nel tuo lavoro: usi molto il computer mentre prima scrivevi sul pentagramma. È stato difficile adattarsi al cambiamento?


Col pc è più semplice, faccio prima. Ora è più immediato, per forza di cose mi sono adattato e non ho avuto alcuna difficoltà anzi, bisogna sempre essere al passo coi tempi. Per esempio il mio amico regista de Palma sentiva la musica solo in sala, ora posso ascoltarla prima e ottenere anche risultati migliori. Però scrivendo col computer manca l’emozione che si ha con l’orchestra. Per il film Passion (2012) sempre di de Palma ho mandato la mia musica a Parigi.

La musica è più fredda. Prima era condotta dal direttore d’orchestra e l’impatto con la musica era più forte, ora i suoni del pc sono dati da campionatori fatti dall’orchestra.

Quindi sì mi sono adattato ma come in tutte le cose ci sono i pro e i contro.

Qualche critica che ti hanno fatto?

 

In Italia mi è capitato di sentirmi dire “l’imitatore di Hermann”, in America “il nuovo Hermann” e questo vuol dire moltissimo.

Non si tratta di imitare ma, come dice Brian “ovvio parto da dove si è arrivati” riferendosi al regista Hitchcock, in risposta a diverse critiche che vedono molte scene dei film di Brian simili alle sue. Ovviamente ci si sente influenzati da quel che è già stato fatto e da questo si parte per creare qualcosa di nuovo. Anche nel classico hanno già scritto tutto. Per fare Fotogrammi sono partito vivaldiano, amo Vivaldi, per poi fare qualcosa di mia creazione. Ennio Morricone ricorda Goffredo Petrassi. Non ci vedo nulla di male, succede in pittura, in architettura e così anche in altre arti, come la musica.

 È vero che non hai mai avuto un agente? Come facevi ad ottenere i lavori?


Non ho mai avuto agenti, tutti mi volevano in esclusiva.

Devo tutto grazie alla mia musica.

Ha sempre funzionato tutto col passaparola. Sono sempre stato contattato perché la mia musica piaceva. Non ho mai avuto le cosiddette “spinte”, che oggi sembrano diventate essenziali per affermarsi. Sono fortunato certo, il destino e il talento mi hanno portato al successo che ho avuto e che continuo ad avere. Non potrei desiderare di più.

 

 

Quali sono i tuoi impegni prossimi? Nuovi progetti bollono in pentola? Svelaci qualcosa se puoi.

Mi daranno un premio importante in Spagna, vicino Malaga, lavorerò ad un concerto tutto su di Palma il prossimo giugno.

Per il 55° anniversario dei Solisti Veneti mi è stato chiesto di fare un pezzo per l’occasione e così nacque Fotogrammi. Da lì l’idea di fare un disco insieme che dovrebbe uscire a fine febbraio, inizio marzo. Lavoravo con loro quando avevo 16 anni, poi, visto il mio successo, non vollero più continuare, ma la stima rimase sempre fino ad oggi, con questo progetto insieme.

A febbraio dovrebbe uscire anche su rai 1 Il sistema, una fiction in 6 puntate a cui ho lavorato.

Ho grandi progetti per il cinema, con the Holding Group TriWorld a cui ho già contribuito per il documentario Neorealismo e i prossimi lavori: The Listener un film tratto da un libro di Andreotti, Ferrari un documentario sulla vita di Enzo Ferrari. Anche il regista italiano Daniele Ciprì mi ha contattato di recente. Non riesco a stare fermo.

 

 

La tua famiglia ti è sempre stata di supporto? Non dev’essere sempre facile avere un marito e un padre sempre in giro per il mondo.


Devo dire che mi reputo un uomo molto fortunato ad avere accanto una moglie stupenda che mi ha sempre sostenuto e mai limitato. Ci siamo conosciuti che lei aveva appena 16 anni ed io 19, poco dopo il mio primo San Remo, ad una festicciola qui a Venezia. È stato amore a prima vista, e oggi siamo ancora qui con due splendidi figli, quindi non posso chiedere di più. 

Valentina Della Rocca

di Valentina Della RoccaEgittologa ed Arabista