Inchieste

Il decalogo per non diventare un perfetto bimbominkia

Fake news, web, spam, facebook, messaggi e studi sociali

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I gay sono degli sporcaccioni: in ogni senso, visto come hanno lasciato la città dopo il loro pride; almeno stando alla foto che ha postato Rolando con il commento: “dopo lo schifo il degrado”.
Quale città? Non importa; e non importa nemmeno dove abbia preso quella foto, Rolando: lui non lo dice, e non è da escludere che si tratti di una bufala come quella virale che poche settimane fa aveva messo sotto accusa gli ambientalisti. Ma non importa: sui social la verità non interessa mai: quello che interessa è coltivare e amplificare pregiudizi e lasciarsi andare a insulti e battute triviali.
Tra i commenti al post di Rolando spicca quello di un medico che scrive: “glieli metterebbe in c…”, un avvocato gli risponde “gli faresti un piacere”, un giovane laureato in scienze politiche se ne esce con “state attenti quando pulite. Quella gente è portatrice di malattie serie”. Quanto a Rolando, sostiene di non essere interessato a sapere se la foto sia autentica o falsa, perché comunque “rende l’idea di cosa è un passaggio di un Gay Pride”.
Intanto, sempre restando sul Gay Pride, c’è chi accusa la versione organizzata a Disneyland di “istigazione alla pedofilia” mentre decine di persone pubblicano indignate il bacio tra Asia Argento e Vladimir Luxuria accompagnando l’immagine con le peggiori contumelie, senza rendersi conto, peraltro, di fare esattamente il loro gioco, regalandogli la visibilità che andavano cercando.


E’ lo stesso tranello in cui cadono i nemici di Salvini che postano ogni santo giorno foto, vignette, articoli e screenshot contro il ministro dell’interno, anche quando non c’è in gioco nulla di serio: basti pensare ai selfie derisori, alla lunga saga del “non sono suo figlio” o alla recente accusa di incoerenza riguardo all’apprezzamento del “Grande Fratello”. E così proprio gli odiatori di Salvini diventano i principali artefici della sua popolarità, regalandogli il ruolo di protagonista indiscusso del dibattito pubblico.
In occasione del crollo del ponte di Genova la Rete si era divisa su un selfie fatto durante il funerale di Stato: i difensori di Salvini avevano parlato inizialmente di bufala, fotomontaggio e foto vecchia, invitando la sinistra a vergognarsi, i nemici del ministro avevano replicato portando le prove che il selfie era autentico e invitando la destra a vergognarsi. Poi a destra avevano tirato fuori la risata di Pecoraro Scanio ad un altro funerale di Stato e il fatto che Salvini si era fatto – sì – un selfie, ma con una disabile, ribadendo l’invito alla sinistra a vergognarsi.

 


E nessuno che si sia vergognato di aver fatto di un selfie una questione di Stato, nessuno che si sia accorto che un servitore dello Stato si giudica con ben altri criteri, nessuno che abbia detto che strumentalizzare una tragedia per delegittimare un avversario politico è assai più vergognoso che farsi un selfie a un funerale.
In occasione di quel lutto nazionale i social si erano riempiti di insulti a sinistra, insulti a destra, al governo, all’opposizione, alla famiglia Benetton, di catene di Sant’Antonio, di foto del profilo omologate, di improvvisati ingegneri edili che pontificavano sui ponti, di commozione per lettere false scritte alle vittime, di indignazione per chi nel frattempo stava a cena. Ma soprattutto, come sempre, di tifoserie.
Il più grande strumento di comunicazione e di condivisione della conoscenza rischia di trasformarsi in un ricettacolo di frustrati e tuttologi che seminano odio, notizie false e luoghi comuni, sparando giudizi senza nemmeno prendere la mira. E questo, come abbiamo visto, a prescindere dal grado di istruzione.
Perché facebook è capace di trasformare anche il professore universitario in un bimbominkia, e permette – al tempo stesso – all’analfabeta di pontificare su ogni ramo dello scibile.


Altro che cookies e normative sulla privacy, altro che big data: il problema dei social network non è il Grande Fratello che ci spia e manipola le nostre coscienze, il problema è che i social ci stanno trasformando in ebeti. Quello che manca è un libretto delle istruzioni che ci permetta di farne un uso consapevole e ci impedisca di trasformarci in haters, divulgatori di bufale, commentatori seriali, tuttologi impenitenti che diffondono menzogne, coltivano l’odio, i pregiudizi e l’intolleranza autodistruggendo la propria reputazione.
La maggior parte degli utenti non si rende conto di che cosa faccia: lo usa come gioco, un bar virtuale dove andare a cazzeggiare, un immenso stadio dove fare i cori contro il nemico, una bacheca dove sfogarsi e dove dire qualsiasi cosa senza assumersene la responsabilità. Eppure oggi facebook è un mezzo di comunicazione esattamente come i giornali, la televisione, la radio, con tutte le ripercussioni legali e morali del caso. Con la differenza che qui tutti possono esternare, commentare, dare giudizi e fare informazione. E’ un mezzo che ci mette tutti sullo stesso piano: analfabeti e intellettuali, politici e sudditi, professionisti e dilettanti.


Ovviamente c’è chi approfitta di tanta stupidità: i partiti politici, così come i social media manager di multinazionali e gruppi di potere, fanno circolare deliberatamente notizie false e usano un linguaggio rozzo per raggiungere le masse (sotto questo profilo è particolarmente interessante la ricostruzione satirica fatta nel film Bentornato Presidente), ma l’utente medio non se ne rende conto ed è guidato dall’istinto di branco e da una superficialità legittimata da quella altrui.
Sotto questo profilo, l’era degli smartphone ha ulteriormente aggravato la situazione rispetto all’epoca in cui internet si usava con il computer: oggi ci troviamo a dibattere di politica estera o di flussi migratori mentre stiamo aspettando la pizza, dissertiamo di conflitti religiosi dalla tazza del cesso, ingaggiamo un duello ideologico mentre siamo in fila alle poste, discutiamo animatamente con uno sconosciuto mentre i nostri amici, di fronte a noi, aspettano che mettiamo via il telefono.


Non a caso chi vuole difendersi da questa degenerazione tende a rifiutare l’iscrizione ai social, oppure diventa un “utente invisibile”: uno di quelli che li usano solo per informarsi e magari mantenere i contatti senza scrivere mai nulla. O ancora, fa un uso esclusivamente professionale dei social; con risultati, però, quasi sempre deludenti.
Qualsiasi giornalista che usi facebook sa benissimo che nessun articolo – nemmeno lo scoop più clamoroso – riuscirà mai ad ottenere tanti like quanto la foto del suo cane. Non a caso oggi i social stanno cambiando il mondo dell’informazione, e gli stessi giornali inseguono – nel linguaggio e nei contenuti – i post.
Non c’è una gerarchia qualitativa su facebook, twitter o instagram: per avere visibilità i post devono avere i like, e per avere i like devono essere popolari, quindi parlare della vita privata, contenere slogan e messaggi di facile comprensione o intervenire su argomenti caldi del dibattito pubblico. Non sono certo casuali, dunque, i “ciao amici”, i “bacioni” e le emoticon usate dai nostri politici: e fanno parte di una strategia pianificata anche i panini alla mortadella e i twitt di San Valentino.


Riuscire a utilizzare attivamente i social network mantenendo decoro e rigore appare quasi come un’utopia: d’altra parte gli addetti ai lavori – analisti Seo, strateghi della comunicazione e così via - ci spiegano come ottenere la visibilità, certo non la credibilità. Addirittura i media manager di profili istituzionali a volte vengono presi da “raptus” da bimbominkia. Noi, però, ci vogliamo provare, proponendo ai nostri lettori un Decalogo per fare dei social network un autentico mezzo di comunicazione e non un ricettacolo di frustrazioni, insulti, notizie false e catene di Sant’Antonio: un vademecum per proteggersi da cadute di stile e trappole che rischiamo di trasformarci in troll, hater e bimbiminkia.


1) Non insultare


L’insulto offende chi lo pronuncia più che chi colpisce e non comunica nulla se non la miseria dell’autore; per questo impegnati a non insultare mai nessuno per nessun motivo, ma ad argomentare sempre in qualsiasi condizione.
Peraltro tutti noi abbiamo sperimentato quanto i social ci rendano aggressivi e si possa arrivare a rompere rapporti umani per dibattiti effettuati online quando, dal vivo, la cosa si sarebbe risolta con una pacca sulla spalla.


2) Non commentare invano


Spesso si condividono o si commentano articoli avendo letto solo il titolo o le prime righe. E’ molto probabile, ad esempio, che questo servizio sarà considerato da molti un’invettiva di stampo omofobico. Ecco, per evitare di fare figure barbine e dar luogo a malintesi tu impegnati a non commentare né tantomeno condividere post e articoli senza averli letti prima per intero.


3) Non fare il tuttologo


La comunicazione orizzontale ci fa sentire in diritto e quasi dovere di commentare tutto, anche quando non abbiamo niente da dire.
Siamo diventati tutti medici, immunologi, geologi, critici cinematografici, ingegneri, politici, economisti, linguisti, giornalisti e ovviamente allenatori di calcio. Possiamo pontificare di tutto senza sapere di niente, perché nell’era dei social non c’è più alcuna differenza tra fatto e opinione, verità oggettiva e punto di vista.
Questa totale delegittimazione delle competenze contribuisce a divulgare bufale e ad inasprire la dialettica trasformando un confronto che potrebbe essere costruttivo in un dialogo tra sordi. Per uscire da questa deriva, cominciamo a smettere di pontificare su argomenti che non conosciamo: cerchiamo di dare credito a chi dimostra competenza e a informarci su fonti autorevoli.


4) Non indignarti invano


Siamo arrivati al paradosso di bigotti che pubblicano le bestemmie scritte dagli anticlericali, mentre “Libero” è diventato uno dei quotidiani più popolari grazie alle sue prime pagine studiatamente “scandalose” e rilanciate dagli indignati di mestiere.
Condividere qualcosa significa sempre pubblicizzarla ed è più costruttivo promuovere il bene che irridere il male, quindi evita di condividere articoli e post di cui disprezzi il contenuto, solo per ostentare indignazione.


5) Rileggi quello che hai scritto e pensa prima di pubblicare


Impegnati a non emettere sentenze su questioni di cui non sei sicuro e a rileggere una o due volte tutto quello che scrivi e quello che vuoi commentare, onde evitare di pubblicare idiozie sgrammaticate.


6) Assumiti la responsabilità di ciò che pubblichi


Non usare i social network come valvola di sfogo: valuta sempre le conseguenze di ciò che pubblichi. Sotto il profilo legale, culturale e morale.


7) Non taggare se non vuoi essere taggato


Non taggare la gente solo per farti pubblicità e aumentare la tua visibilità. Utilizza i tag per segnalare foto e post solo a persone che sono direttamente coinvolte o sicuramente interessate.


8) Non abboccare alle catene di Sant’Antonio


Non inoltrare mai a tutti i tuoi contatti i messaggi che vieni invitato a inoltrare a tutti i tuoi contatti. Il 99% di questi messaggi sono bufale: se proprio ritieni che siano messaggi da divulgare, fallo solo dopo aver verificato la loro autenticità. Fretta e pigrizia sono le principali cause della diffusione di allarmismi e notizie fasulle.


9) Non spammare


Non mandare messaggi privati a persone che non conosci personalmente per invitarli a votarti in tale concorso o ad acquistare il tuo prodotto o a partecipare al tuo evento né tantomeno a condividere il tuo post. Andresti a molestare la gente per strada chiedendo il voto a ogni singolo passante? Telefoneresti all'intera rubrica telefonica? E allora perché pensi che sia giusto farlo con i messaggi, solo perché per te è più comodo?

 

10) Non divulgare bufale

 

Ogni giorno i social ci servono inotizie false da dare in pasto a commentatori compulsivi: “Disabile cacciata da un bar. Il gestore: mi crea un danno” (il titolare si era rifiutato di far consumare al tavolo un caffè ordinato al banco da una donna che, apparentemente, non aveva alcun problema di salute); “Atleta di origini nigeriane aggredita da razzisti con lancio di uova” (come è stato dimostrato in seguito, l’atto teppistico non aveva nulla a che fare con il razzismo); “Polemica sul crocifisso indossato dalla conduttrice del Tg1” (articolo basato su un twitt di un ex consigliere comunale di Torino – quindi un signor nessuno – che pure ha scatenato le reazioni indignate di Capezzone, Meloni e Radio Maria).
E che dire della “notizia shock” pubblicata un anno fa dal blog “Devinformarti” che conteneva questa presunta dichiarazione di Macron: “L’Italia era un Paese fascista. È cosa nota che durante il ventennio gli africani venissero trattati alla stregua di animali, pertanto è giusto che i neri di oggi si prendano ciò che spetta loro legittimamente”.


Se facevi notare all’autore del post che la notizia era accreditata a tale Mubu Bumbala, responsabile di altri blog specializzati in fake news come Forse24, Info5s24h e forsenews24h, e che – ovviamente – non trovava alcun riscontro nei media, lui ti rispondeva che non gli interessava sapere se la notizia era vera o falsa, perché tanto comunque Macron “mi sta sul cazzo” e quelle dichiarazioni erano “verosimili”.
Dunque, accendi il cervello prima di condividere una notizia. L’alibi del “verosimile” - ritornello di tutti i divulgatori di menzogne - è ridicolo e infame: è verosimile in quanto conferma dei pregiudizi, ma i pregiudizi, in quanto tali, sono giudizi falsati. Divulgare bufale basate sui pregiudizi serve dunque a costruire dal nulla delle indiscutibili certezze e percezioni fasulle capaci di creare anche danni enormi.
Immaginiamo un mondo in cui la verità non è più un valore assoluto ma relativo: un medico potrebbe operare un paziente in base ai sintomi senza fare la diagnosi, un giudice potrebbe condannare un poco di buono anche se è innocente. E perché scannarsi tanto su un rigore dato o non dato? L’importante non è che il rigore ci sia o meno, ma che sia verosimile!


Non è uno scenario così lontano: in campo sanitario e in quello politico sta già accadendo: pensate ai vaccini, al glutine, e allo scenario politico mondiale, dove gli elettori tendono a premiare non chi dice la verità ma chi cavalca i pregiudizi.
Qualsiasi legge che tenti di arginare le fake news è destinata a fallire, perché solo lo spirito critico, l’intelligenza, un minimo di rigore in quello che si legge e che si condivide possono combattere questo fenomeno. Ma se c’è chi lo difende apertamente e consapevolmente, rivendicando il diritto di essere preso in giro e di divulgare notizie false, allora è una guerra già persa. E l’idiocrazia è sempre più vicina.

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.