Inchieste

Migliaia di morti e c'è ancora chi grida al complotto

La reazione del popolo italiano non ha avuto niente di coraggioso. Quanto bisogna essere noiosi per annoiarsi di questi tempi?

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Non appena il Covid-19 si è affacciato dalla Cina, la parola d’ordine è stata subito: “Il Coronavirus non ci fermerà”: non ci impedirà di stare insieme, di festeggiare, di andare al mare, di fare serata, di continuare la nostra vita esattamente come prima. Oggi sappiamo che è proprio questo atteggiamento che ha fatto dell’Italia il paese più colpito, superando la stessa Cina dove è nato e la Germania da cui (sembra) è arrivato in Europa. Ma attenzione, è facile giudicare le frotte di ragazzi che in piena emergenza si sono riversati nelle strade del centro per fare aperitivo, convinti che tanto il virus uccide solo i vecchi, o gli idioti che in Francia hanno partecipato al mega raduno dei Puffi. La realtà è che qui non stiamo parlando solo di atteggiamenti irresponsabili di singoli individui, ma di qualcosa di assai più profondo e radicato. “Il Coronavirus non ci fermerà” è stato anche lo slogan di politici, amministratori, artisti, commercianti, organizzatori culturali. A Terni, per esempio, proprio alla vigilia del coprifuoco è stata inaugurata la mostra di Andy Wharol. Dalle scuole di ballo ai cinema, dalle biblioteche ai ristoranti, dalle sale espositive alle palestre, dai bar alle piscine, fino a negozi, centri commerciali e supermercati, non c’è nessuno che abbia deciso di chiudere per semplice buon senso: tutti lo hanno fatto solo ed esclusivamente quando il Governo li ha costretti. 

E diciamo la verità: anche noi abbiamo continuato ad andare in giro finché non si è rischiata una multa o la denuncia. Solo le messe sono state sospese spontaneamente, con un atto – peraltro – che non ha precedenti in tutta la storia della Chiesa. Per il resto il presidente del Consiglio si è trovato a fare la parte della maestra severa con tutto il popolo italiano. 

 

 

Così, quando siamo precipitati da un giorno all’altro in uno stato di guerra che nessuno della nostra generazione e nemmeno di quella dei nostri genitori aveva mai vissuto, siamo rimasti spiazzati. Fino ad oggi la parola d’ordine era stata sempre la stessa: “Non si arrende”. Anche se non significa nulla. O meglio, significa che continua tutto come prima. 

Ma dove sta scritto che questo non arrendersi sia un valore? Che andare avanti sia sempre la cosa più giusta da fare? Dove sta scritto che non bisogna fermarsi mai? La verità è questa nostra società festaiola, commerciale ed efficientista ha completamente rimosso il concetto di lutto, così come quello di digiuno, di riflessione, di rigenerazione. E fa un certo effetto pensare che l’inizio di questa quarantena sia coincisa proprio con la quaresima. 

Eppure ben pochi, almeno apparentemente, hanno deciso di cogliere l’opportunità per fermarsi, riposare, riflettere, re-impostare - o se vogliamo “resettare” - la propria vita: la gran parte ha cercato ogni modo per continuare a fare quello che faceva prima E allora ecco che è tutto un fiorire di flashmob, di concerti sui balconi, di eventi via web e chi tira fuori la poesia, chi balla, chi canta, chi prepara i dolci, e così - come ha fatto notare giustamente Simona Buscaglia – anche nei telegiornali la reazione “artistica” al Coronavirus ha finito per mettere in ombra il problema reale, e il modo in cui si sta combattendo. Gli italiani, all’improvviso, sono diventati il popolo dei balconi.

 

 

Ecco, mi dispiace rovinare la festa, ma con buona pace dell’orgoglio, delle bandiere e del conformismo, la reazione del popolo italiano non ha avuto niente di coraggioso: è stata fondamentalmente quella del bambino che ha la febbre alta ma non vuole stare a letto. E allora, per farcelo stare, bisogna dirgli che il letto è un astronave e intrattenerlo con fiabe e canzoncine per non farlo frignare. 

In fondo questa crisi ha dimostrato che è più facile insegnare a un cane a stare seduto che a un italiano a stare a casa. “Speriamo che finisca presto” è stata la frase più ripetuta in queste settimane. Dimenticando che la priorità dovrebbe essere che finisca bene, non che finisca presto. E anche dopo quasi due mesi di clausura (scusate ma mi rifiuto di usare anglicismi inutili come “lockdown” e “smartworking”) anche adesso si ha fretta di tornare a spasso, anche se il prezzo sarà girare per le strade vestiti come astronauti e rischiare di ricominciare tutto da capo, proprio quando la fine dell’incubo sembrava vicina. 

“La domanda non è quanto resisteremo – ha detto padre Alberto Maggi - ma come ne usciremo. Da questo periodo c’è chi ne uscirà svuotato, stremato e chi ne uscirà arricchito, rinnovato. Negli anni precedenti abbiamo assistito al boom economico, questa volta assisteremo ad un boom umanitario”.

Non vediamo l’ora che finisca tutto per tornare alla nostra normalità e non ci siamo ancora chiesti se quella normalità fosse davvero la cosa più giusta. Già, perché la forzata reclusione è in realtà anche una grande opportunità, ma per coglierla siamo costretti a rivoluzionare non solo il nostro modo di agire, ma anche quello di pensare. Il problema è che nessun decreto del Presidente del Consiglio può costringerti a cambiare il tuo modo di pensare: e così di fronte alla reclusione forzata c’è chi reagisce con lo sconforto e la depressione e chi si sforza di continuare a fare la vita di prima arrangiandosi come può: cene e aperitivi in videoconferenza, le videochiamate di gruppo per cazzeggiare, le dirette facebook e tutti gli altri surrogati che la tecnologia ci mette a disposizione. In altre parole continuiamo ad inseguire il dito perduto anziché approfittarne per guardare la Luna. 

 

 

E’ così assurda l’idea di leggere un libro? Guardare un film? Telefonare – sì, telefonare! – ad un amico e farci una lunga chiacchierata? O addirittura scrivere una lettera? Starsene un po’ con sé stessi e con la propria famiglia?

Una delle parole più inflazionate in queste settimane è stata “noia”: sui social si sono moltiplicati i giochini idioti proprio per “vincere la tristezza” e “ingannare la noia”. Ma quanto bisogna essere noiosi per annoiarsi di questi tempi? E cosa diavolo c’è da stare tristi a starsene in vacanza a riposare?

Non sono mancate, però, valanghe di “mamme” pronte a consolare il bambinone viziato, costretto – lo ricordiamo – non a partire per il fronte e rischiare la vita, ma a starsene a casa a farsi i comodi suoi proprio per non rischiarla: non mancano così le iniziative “solidali” indirizzate ad intrattenere il popolo recluso, e in gran parte interessate e discutibili.

Al di là del fatto che gli italiani che se ne stanno a casa non hanno alcun bisogno di solidarietà, e semmai ce l’hanno quelli che stanno in ospedale, è fin troppo evidente che chi si sta adoperando per regalare libri, film e abbonamenti (persino Amazon e Pornhub!) lo fa solo per cercare di trasformare – cinicamente - una tragedia in una strategia di marketing. Come ha spiegato bene Javier Jiménez, direttore di Fórcola Ediciones in un articolo rilanciato in Italia dalla casa editrice Graphe.it, queste iniziative promozionali non solo non hanno niente a che fare con la solidarietà, ma danneggiano ulteriormente chi lavora nel mercato della cultura e sta pagando già un prezzo altissimo a questa emergenza.

“Centinaia di teatri, cinema, musei, sale per concerti, auditorium, teatri di opera, sono chiusi. Alcuni si stanno scapicollando a offrire gratis sui social network contenuti protetti dal diritto d’autore, mentre in silenzio si mette in pratica la più grande cassa integrazione collettiva della storia recente. Sul carro del tutto gratis, o della follia degli sconti e dell’abbassamento dei prezzi, stanno salendo colleghi editori, offrendo disperatamente gli eBook gratis dei loro titoli in catalogo”. Materiale, peraltro, in gran parte inutile, visto che non c’è casa dove non ci siano libri ancora da leggere.

L’intelligenza è la capacità di adattarsi ai cambiamenti, diceva Stephen Hawking. Ma il popolo italiano – cantore dell’ “arte di arrangiarsi” – in questo caso continua a rifiutare in ogni modo la sua nuova condizione.

Di fronte a qualsiasi tragedia non abbiamo fatto altro che ripetere “dobbiamo andare avanti”. E invece no: non dobbiamo andare avanti, dobbiamo fermarci. Non dobbiamo continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto: dobbiamo approfittarne per fare quello che non abbiamo fatto mai. E magari riflettere sul fatto che se c’è qualcuno che sta soffrendo davvero, a causa di questa epidemia, non è chi è costretto a stare a casa, ma chi una casa non ce l’ha, non è chi deve stare tutto il giorno con la moglie ma chi non può sposarsi e l’amore magari ce l’ha dall’altra parte del continente; sfortunato non è chi deve lavarsi le mani dieci volte al giorno ma chi le mani non se le può lavare, non è chi è costretto a tenere le distanze controvoglia, ma chi le distanze non può tenerle perché vive in una baraccopoli; non è chi se esce di casa rischia una multa da quattromila euro ma chi rischia che gli piova una bomba in testa.

 

 

Chi soffre davvero per il Coronavirus non sono i poveri italiani che cantano dai balconi, ma gli abitanti di Aleppo, di Delhi, di cui – però – nessuno parla. Eppure è su questo che dovremmo meditare un po’ – tra la rabbia di non poter più fare la propria corsetta quotidiana e lo stalking del cane per avere una scusa per uscire.

Non a caso è proprio su questo che il Papa – nel momento più intenso di queste settimane – ci ha invitato a riflettere: “Siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.

La memoria non può che andare a vent’anni fa, quando l’onda solidale del movimento noglobal – il primo della storia che non scendeva in piazza per difendere i propri diritti, ma quelli degli altri – si infranse sull’affermazione di George Bush che rappresentava il pensiero di tutta la civiltà occidentale che col 20% di popolazione consuma l’80% delle risorse: “Il nostro stile di vita non è in discussione”.

La decrescita felice era (ed è) considerata una bestemmia, il Pil – ovvero la ricchezza misurata in consumo – unico indice di benessere. Eppure non si fa che parlare di quanto l’emergenza sanitaria abbia fatto bene all’ambiente, ma anche alla legalità e al senso civico. Servirà davvero? Difficile: il nostro stile di vita non è in discussione. Chiedeteci tutto, ma non di rinunciare all’aperitivo, alla settimana bianca, alla macchina, alla palestra. E ora che non per solidarietà, non per impegno sociale, ma per necessità siamo costretti a rinunciare a tutto, preghiamo solo che non ci tolgano anche internet. O siamo definitivamente fottuti.

 

 

Più che rigenerare, sembra che questa crisi abbia amplificato il peggio della nostra società: dal dilagare delle fake news (con i metodi più fantasiosi per combattere il virus divulgati tramite messaggi whattsapp)  alle ansie da complottismo con gente che dopo due mesi di pandemia e centinaia di migliaia di morti (tra cui anche nomi illustri come Lucia Bosé e Luis Sepulveda) ancora ha il coraggio di gridare al complotto. E che di fronte all’unica soluzione efficace per tenere sotto controllo il contagio – ovvero un’applicazione sul telefonino – si ribella parlando di “regime sanitario”, “arresti domiciliari volontari”, “app di tracciamento globale in attesa del riconoscimento facciale”. 

Non è strano: se in estremo oriente il controllo del virus è stato più efficace, è perché non c’è una cultura individualista ma una prioritaria idea di collettività e di conseguenza non esiste la nostra ossessione per la privacy: totalmente demenziale, peraltro, visto che ci rifiutiamo di farci controllare dal governo per questioni di sicurezza, mentre ci facciamo spiare volentieri e in continuazione per finalità commerciali. 

Ma non è strano nemmeno che qualsiasi bimbominkia si atteggi a virologo, dal momento in cui i virologi si atteggiano a bimbiminkia (si pensi alla indegna polemica via social tra Burioni e Tarro).

In uno scenario tanto desolante sotto il profilo scientifico e politico, l’unica voce autorevole  rimasta è quella del Papa: la cerimonia solitaria in una piazza San Pietro deserta e sotto la pioggia battente trasmessa a reti unificate, è già entrata nella storia suggestionando i laici e gli agnostici tanto quanto i credenti, perché ha rappresentato la risposta più credibile in un momento in cui la scienza stessa si è dimostrata incapace di dare risposte.

“Ha colmato – ha scritto su facebook una ragazza dichiaratamente atea - il vuoto della razionalità, della scienza, dei Governi dell’obiettività, della mente. Ha fatto in modo che quel vuoto che ci stava facendo impazzire venisse riempito”. 

 

 

“Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca – ha detto Bergoglio - tutti fragili e disorientati. La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità”. “Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità”. 

Comunità: un altro concetto che abbiamo perso di vista, presi come eravamo ad inseguire la community.

 

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.