Inchieste

Anche i bambini, che non sanno leggere e scrivere, comunicano con le emoji. Sbagliato far utilizzare le “app e tecnologie” troppo presto

Da adulti saranno intimoriti e non riusciranno a stabilire contatti reali. Preferiranno nascondersi dietro le “faccine”.

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Oramai i bambini iniziano a comunicare con le emoji ancor prima di imparare a leggere e a scrivere. Lo rivela un sondaggio di GretchenMcCulloch, un’esperta di linguistica, che ha chiesto via Twitter ai suoi follower di farle sapere se fossero a conoscenza di bambini in età prescolare che scrivevano utilizzando faccine, cuoricini e quant’altro. Insomma, le emoji che usiamo spesso sui cellulari quando comunichiamo sui social o con WhatsApp.
Bene, il risultato di questa consultazione è davvero interessante: innanzitutto si, le risposte al principale quesito di McCulloch confermano che i bambini comunicano con le emoji anche se non sanno ancora leggere e scrivere. In particolare si tratta di quelli che hanno un’età compresa tra i tre e i cinque anni. Inoltre, ad essere preferiti, sono i simboletti che rappresentano cuori e animali.Cambia anche il significato che i bambini attribuiscono ai simboli rispetto a quello degli adulti. Ad esempio, nelle conversazioni dei più piccoli mancano le faccine che piangono o le manine con il pollice all’insù. Molto presenti, invece, le faccine che mandano baci o quelle con la lingua di fuori. Sono più semplici e immediate. Dal sondaggio emerge anche che i bambini utilizzano spesso la tastiera in modo meccanico.


Si tratta, dunque, di un processo di apprendimento del linguaggio decisamente diverso rispetto a quello del passato. Che modifica, nel tempo, anche la successiva comunicazione scritta. I telefonini, i device mobili, favoriscono la messaggistica istantanea. In maniera anche eccessiva, tocca dirlo. I giovani tengono gli smartphone accesi tutto il giorno e ne fanno uso anche durante le lezioni scolastiche. Li portano a letto e si svegliano di notte per vedere se è arrivato un messaggio. Inoltre non nascondono le loro paure legate all’eventualità che il telefonino non sia connesso. Il fenomeno si chiama nomofobia e per gli esperti si tratta di una malattia vera e propria. Un bambino su cinque prende subito contatto con un telefonino già nel primo anno di vita. Questo spiega il motivo per cui i più piccoli comunicano da subito attraverso le emoji. Il problema è che questo tipo di comunicazione veloce diventa una costante nel tempo, e anche in età adulta siamo tutti portati a dialogare attraverso simboli, parole abbreviate, smile, immagini. Facciamo tutto più velocemente per abbreviare tempi e modalità di comunicazione. Ma tutto questo non è sempre positivo.


Gli studi sui bambini che hanno un’età inferiore ai due anni hanno dimostrato che le interazioni con i genitori sono molto più efficaci dei video per l’apprendimento di nuovi elementi verbali e non verbali. Le difficoltà di apprendimento da rappresentazioni video bidimensionali vengono definite con il termine ‘deficit video’. Sono attribuibili alla mancanza di pensiero simbolico, ai controlli immaturi e alla memoria necessaria per trasferire efficacemente la conoscenza da una piattaforma bidimensionale ad un mondo tridimensionale. Prima dei trenta mesi i bambini sviluppano abilità cognitive, linguistiche, senso motorie e socio-emotive che richiedono esplorazione pratica e interazione sociale. Con chi si relaziona con loro deve instaurarsi un rapporto di fiducia, necessario per l’apprendimento e per un adeguato sviluppo. Le app, i software o i simboli come le emji, realizzati per coinvolgere i bambini in un’esperienza interattiva, possono distrarre l’attenzione dei più piccoli se manca un punto di riferimento, come la vicinanza di una persona adulta.


Il problema del contatto fisico e reale non riguarda solo i bambini. Ci sono persone adulte che preferiscono mantenere una relazione online piuttosto che nella vita vera. E’ una delle questioni più dibattute da psicologi e psicoterapeuti. Sui social gli individui diventano spontanei, scherzano, accettano le amicizie anche se non conoscono chi c’è dall’altra parte del monitor o del display del telefonino. Ma quando si trovano fisicamente in un gruppo spesso mantengono lo sguardo basso, sono intimoriti e non riescono a stabilire contatti e a parlare con gli altri. E’ uno degli effetti provocati dall’illusione di possedere una propria identità costruita attraverso i social, le chat, la consultazione di siti web. Una comunicazione in cui però manca l’utilizzo della parola. Oggi ci sono gli emoticon, i disegnini, le abbreviazioni. Sono divertenti e non fanno perdere molto tempo. Alle parole si preferiscono le immagini, si comunica con i selfie, con le foto. Molte volte modificate con l’ausilio di applicazioni che creano baffi e barba finti, capelli colorati, occhiali enormi. Può essere un passatempo carino che per noi diventa una metafora. Passiamo il nostro tempo a nasconderci dietro una maschera ed evitiamo il contatto vero con gli altri.
 

Antonio Pascotto

di Antonio PascottoGiornalista Caporedattore All news Mediaset, Tgcom 24.