Spettacolo

Cannes 2017: le serie (e il web) sostituiranno il cinema d’autore?

La Tv arriva “prima” del Festival. Il cinema d’autore comincia a fare “flop”

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Quest' anno per la prima volta, a memoria d' uomo, un prodotto audiovisivo di prestigio (una nuova stagione di una serie tv leggendaria: Twin Peaks, di Mark Frost e soprattutto David Lynch), selezionato dal Festival di Cannes, è andato in onda in tv prima di essere proposto in sala: chiunque fosse abbonato a Sky poteva vederla on demand qualche giorno prima del suo passaggio sulla Croisette. Sembra un semplice fatto, ma è una rivoluzione. Che porta inevitabilmente ad una domanda. Quale sarà e potrà essere il luogo in futuro del cinema più intraprendente, innovativo, di ricerca, di cui i festival di cinema costituiscono l' osservatorio privilegiato? Sará ancora il cinema degli autori, delle avanguardie estetiche, dell' investimento in linguaggio, stile, contenuti, che di questo luogo ha da sempre detenuto il monopolio?

Il cinema d’autore è sempre stato la “formula uno” soprattutto di un festival come quello di Cannes - che sull' esistenza stessa del cinema d' autore ha fondato la sua esistenza. Quest' anno, per celebrare il 70esimo anno del festival, la tradizionale sigla che mostra in animazione una interminabile scalata dal fondo del mare al cielo è stata ridisegnata per imprimere ad ogni gradino il nome di un autore, da Bresson a Scorsese, da Ferreri a Sorrentino.

Alla luce dei film visti, alcuni dei quali erano preceduti dalle inconsuete insegne produttive di colossi del web come Amazon e Netflix (che non hanno alcun interesse nell’andare con i loro prodotti in sala: il tema appare ancor più cruciale. Il cinema degli autori, dopo settant' anni di Cannes, mostra allarmanti segni di stanchezza, ripetitività, bassa intensità. È solo stata un' annata di raccolto poco fortunata? Noah Baumbach, forse l' unico possibile erede di Woody Allen, con la saga di una complicata famiglia ebrea (The Mereyowitz Stories) ed un supercast (Dustin Hoffman, Adam Sandler, Ben Stiller), sembra studiare alla perfezione per diventarne l' epigono. Jacques Doillon, a sua volta epigono da sempre della nouvelle vague, con il ritratto di scultore più che gessoso di Rodin, è invece ormai un regista di pura accademia (alla quale, l' acido e grottesco ritratto di Godard contenuto in Redotutable di Hazanavicious, potrebbe costituire un contrappeso - se non fosse che, alla fine, non generi il sospetto di una rappresaglia o vendetta fuori tempo massimo). Michael Haneke con Happy End, Roman Polanski con D' Apres une histoire vrai e Francois Ozon con L' amant double, fanno proprio ciò che si può temere da autori acclamati dopo una certa età: rifanno se stessi con più sciatteria ed un inevitabile deficit d' ispirazione. La scozzese Linne Ramsay, che qualche anno fa aveva percosso occhi e cuore con la storia di un giovane assassino di massa liceale, E ora parliamo di Kevin? Il suo You were never really here è un thriller cospirazionista incomprensibile e violento (e incomprensibilmente premiato per la sceneggiatura dalla giuria presieduta da Almodovar). Certo, Mundruzco (Jupiter' s Moon) si conferma un talento visionario da seguire con attenzione, Zvyagintzev, con Loveless, offre forse lo sguardo più penetrante sulla Russia di oggi e Fatih Akin (Aus dem nichts) con la sua storia che ha al centro le vittime e il lutto di un attentato terroristico, è l' unico a puntare davvero la macchina da presa sul mondo di dolore e minaccia di oggi, invece che rigirarla, ogni volta che è possibile, verso il proprio ombelico al cui centro c’è il gorgo del dipanarsi meccanico delle proprie fantasie. Per questa ragione, evidentemente, la giuria ha premiato la notevole interpretazione di Diane Kruger nel film di Akin, così come non ha mancato la perfetta messa a fuoco sociale della satira dello svedese Ruben Ostlund (palma d' oro con The Square) e la toccante rievocazione della militanza contro l' AIDS di 120 battiti al minuto, premio speciale della giuria, di Robin Campillo.

 

 


E il cinema americano? The Beguiled è il film migliore di Sofia Coppola da Lost in Translation (ma nell' originale degli allora campioni di misoginia Clint Eastwood e Don Siegel, La calda notte del soldato Jonathan, di cui è un remake, le donne apparivano meno ridicole: il premio alla regia della Coppola è sostanzialmente un riconoscimento a luci e costumi), Good Time è un energico esercizio nel noir che, però, come i suoi protagonisti, si autodistrugge senza meta alla fine di un tour de force ansioso e adrenalinico e di un copione non banale.

E la scoperta, l' originalità, la prepotente energia di una creatività che scoperchia il nuovo e lo mette finalmente a disposizione? Per trovarne bisogna rivolgersi proprio a quella forma che sembra non appartenere a quella storica del cinema di un autore che si impossessa di ogni angolo dell' inquadratura con la propria soggettività, in una durata che raramente eccede le due ore. Stiamo parlando delle serie tv, che ormai costituiscono l' oggetto di elezione di un consumo di immaginario non convenzionale, entrato stabilmente a far parte del nostro vissuto domestico. La seconda stagione di Top of the Lake, di Jane Campion - l' unica regista donna ad aver vinto una palma d' oro - e Ariel Kleiman, di cui Cannes ha proposto tutte e sei le puntate in una proiezione unica e indimenticabile di circa sei ore, e il ritorno di Twin Peaks, di cui sono state mostrate solo le prime due puntate, hanno a che fare proprio con tutto questo: le tecniche dello storytelling, che hanno a disposizione una durata virtualmente illimitata (ci sono serie che durano fino a 6, 7 stagioni, per 10 – 12 episodi a stagione), dispiegano l’infinità di scrittura e sfumatura del romanzo, i generi si ibridano e mixano in una sorta di rigenerazione continua (thriller e fantastico, noir e melodramma, horror e commedia: basta vedere le due ore del nuovo lavoro di Lynch per rendersi conto), gli attori hanno a disposizione un tale spazio/tempo di lavoro che si può davvero parlare di qualcosa come di un’ “alta definizione” della recitazione.

 

 

Di fronte a tutto questo, il vecchio e nobile, prestigioso e spossato, autorevole e un po’ catatonico, cinema d’autore, quest’ anno, ha mostrato limiti impressionanti. E’ solo l’inizio? Chiunque, come il sottoscritto, ha provato a immergersi in un film lungo più di 5 ore – esperienza dolce e vertiginosa – inizia seriamente a sospettarlo.
 

Mario Sesti

di Mario SestiCritico e Festival Curator