Spettacolo

Nino Manfredi e quello che nessuno conosce. Intervista al figlio Luca

Elio Germano nei panni dell’attore ciociaro, affiancato da Leo Gullotta, Massimo Wertmuller, Anna Ferruzzo, Giorgio Tirabassi, Sara Lazzaro e Miriam Leone

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“Quando ho girato il mio primo film, Grazie di tutto, avrei voluto Marcello Mastroianni come protagonista. In autunno sono andato a trovarlo in teatro, dove recitava Le ultime lune, già molto malato. “Quando si comincia a girare?” mi chiede; “Verso luglio” faccio io. “E chi ci arriva a luglio – mi risponde – a me rimangono al massimo tre-quattro mesi di vita. Perché non lo chiedi a tuo padre?”.
Così Luca Manfredi racconta il suo primo incontro cinematografico con Nino, suggerito da un altro gigante dello schermo.


A vent’anni esatti da quel film girato con il padre, oggi Luca ne ha fatto invece uno sul padre: In arte Nino, in onda lunedì 25 settembre su Rai Uno, con Elio Germano nei panni dell’attore ciociaro, affiancato da un cast d’eccezione che comprende Leo Gullotta, Massimo Wertmuller, Anna Ferruzzo, Giorgio Tirabassi, Sara Lazzaro, Miriam Leone nel ruolo di Erminia Manfredi, Stefano Fresi in quello di Tino Buazzelli (il celebre Nero Wolfe televisivo), mentre Duccio Camerini è il padre di Nino.

“Quando mi hanno proposto di fare un film su mio padre all’inizio ho rifiutato” spiega Luca, classe 1958, che ha iniziato la sua carriera negli anni ’80 proprio dirigendo Nino nelle celebri pubblicità della Lavazza.
“Come si fa a raccontare la vita di un personaggio così conosciuto? Poi riflettendoci ho pensato che poteva essere interessante raccontare la parte della vita di Nino Manfredi che nessuno conosce: quella prima del successo”.
In arte Nino, scritto da Manfredi con lo stesso Elio Germano, si concentra quindi negli anni della formazione, partendo dal 1939 – quando, ammalato di tubercolosi, Saturnino viene ricoverato per tre anni e mezzo in un sanatorio – e si conclude nel 1959 con il grande successo di Canzonissima.
“Il film racconta il lungo braccio di ferro con mio nonno, che era maresciallo di polizia e non voleva assolutamente che lui facesse l’attore”.

 

 

Tanto da costringerlo a iscriversi a Giurisprudenza.
“Mentre studiava legge, però, Nino frequentava di nascosto l’Accademia d’arte drammatica, dove poi ha incontrato personaggi come Tino Buazzelli, Paolo Panelli, Rossella Falk e Gianni Bonagura che gli ha presentato mia madre. Una volta laureato, poi, è andato da mio nonno, gli ha consegnato la laurea e gli ha detto: “Tieni, questa attaccatela al muro, io parto in tournée”.
E ha finalmente seguito la sua passione.
“Con un percorso pieno di difficoltà e amarezze. Perché il cinema non lo voleva: quando faceva i provini gli dicevano sempre che aveva la faccia troppo normale, da perdente, che non era fotogenico. Per cui si è barcamenato facendo di tutto: dalla prosa alla rivista, dalla radio al doppiaggio”.
Ha doppiato anche lo stesso Marcello Mastroianni in un paio di film.
“Poi nei primi anni della televisione forma una coppia comica con Bonagura, riprendendo alcuni sketch dell’Avanspettacolo, e finalmente arriva la proposta di Canzonissima con Paolo Panelli e Delia Scala”.
Nel frattempo aveva iniziato a fare cinema: ad esempio Totò, Peppino e la Malafemmina.


“Fino a quel momento solo piccoli ruoli, nessuno da protagonista. Il cinema vero arriva solo dopo Canzonissima, che gli dà questa improvvisa e clamorosa popolarità grazie al personaggio del barista di Ceccano, frutto creativo delle sue origini ciociare”.
Il film si conclude proprio con tuo nonno che si ritrova in un bar dove la gente guarda Canzonissima, si commuove e per la prima volta lo applaude.
“Mio nonno me lo ricordo come un uomo molto taciturno e severo. Severo in primis con sé stesso: per far studiare i figli ha fatto grandissimi sacrifici, per anni non si è preso nemmeno un caffè. Avere due figli laureati – uno in medicina e l’altro in legge – è stata una soddisfazione enorme.                                                              Poi ammise che Nino aveva ragione, ma tra loro è rimasto sempre un rapporto di poche parole. Mio nonno era un uomo incapace di esprimere i suoi sentimenti: diceva che i figli vanno accarezzati quando dormono”.

 


La vostra era una famiglia di emigranti.
“La Ciociaria era una terra di emigrazione: il padre di mia nonna ha lavorato 30 anni in miniera negli Stati Uniti, e mia nonna dopo dieci anni in America è tornata perché, per volontà delle famiglie, si doveva sposare con il maresciallo del paese”.
Il tuo rapporto con tuo padre, invece, come è stato?
“Nino Manfredi ha fatto molto poco il padre: ha vissuto per il suo lavoro e a casa non c’era mai, quindi sicuramente non è stato un rapporto facile; anche perché ogni tanto decideva di vestirsi da padre ed era molto severo. Però di fatto lo abbiamo sempre visto molto poco, e io un po’ l’ho sofferta, questa mancanza di dialogo, che è poi la stessa mancanza che ha sofferto lui con suo padre. Come fa lui nel film, anche io ho avuto dialoghi immaginari con mio padre, perché nella realtà abbiamo parlato poco, e sempre in maniera superficiale. La verità è che lui non ha mai approfondito il rapporto con i suoi tre figli”.
Eppure avete lavorato molto insieme.
“Sì, perché io ho iniziato a lavorare in pubblicità. In realtà all’inizio mi ero iscritto a medicina, spinto anche da mio zio Dante - che nel film è interpretato da Flavio Furno - primario di oncologia al Regina Elena. Ma appena ho iniziato a frequentare la sala operatoria ho lasciato: era uno stress enorme vedere la gente morire sotto i ferri. Così mi sono iscritto all’Istituto europeo di design di Milano”.

E tuo padre come l’ha presa?
“La prese malissimo. Fu molto duro e mi disse che la vita non mi avrebbe dato una seconda possibilità. Invece poi ho cominciato a lavorare per Armando Testa, scrivendo le sceneggiature dei suoi spot per la Lavazza, che sono durati ben 17 anni: dal 1977 al 1993. Io sono entrato al quarto anno perché lui si lamentava che il tipo di comicità che gli proponevano era un po’ piemontese, come Testa. All’inizio il regista era Luciano Emmer, poi sono subentrato io e ne ho girati più di cento”.
Poi arrivano i film televisivi.
“Con la serie Un commissario a Roma, nel 1993, che ha segnato l’esordio di Giorgio Tirabassi, che faceva la spalla di mio padre. Per questo Giorgio ci teneva a partecipare a tutti i costi a questo film, che ha segnato il suo ritorno in Rai dopo 18 anni”.
Anche la sua ultima interpretazione tuo padre l’ha fatta con te.
“Un posto tranquillo, una miniserie con Lino Banfi andata in onda nel 2003, dove faceva un frate cieco che scopre di avere un figlio”.

 


Era meglio come collega che come padre?
“Era un maestro. E poi è stato bello per me, fin da ragazzino respirare l’aria della grande commedia all’italiana. Ho assistito a sedute di sceneggiatura con i più grandi: Age e Scarpelli, Benvenuti e De Bernardi… per metà del tempo di assoluto cazzeggio, poi entravano nel merito e venivano fuori delle cose straordinarie. C’era un’atmosfera molto goliardica e io mi divertivo moltissimo a osservarli”.
Come è stato crescere con un padre tanto famoso?
“Difficilissimo, perché rischi di rimanere schiacciato da questo peso. Poi io ero molto timido: quelle rare volte che siamo andati al cinema insieme mi sedevo dieci file più avanti. Mi dava fastidio essere additato come il figlio di Nino Manfredi”.


In che cosa Elio Germano è simile a Nino Manfredi?
“Nella meticolosità, la scrupolosità quasi maniacale con cui prepara il personaggio. Come Elio anche Nino non lasciava niente al caso; anche se doveva andare in televisione a raccontare una barzelletta la provava prima: ci radunava tutti in salotto e ce la raccontava per vedere la reazione, e se era tiepida la cambiava. Per lui l’improvvisazione non esisteva. Quando per esempio Comencini lo chiamò per fare Geppetto lui era abbastanza sorpreso perché aveva solo cinquant’anni: “Maestro – disse a Comencini - con tutti gli attori bravi di una certa età perché ha scelto me, che sono ancora giovane per fare un vecchio falegname?”. E Comencini gli rispose: “Perché lei è l’unico attore italiano in grado di parlare con un pezzo di legno”. E allora, sentendo la responsabilità di questo incarico, andò al parco a “studiarsi” qualche anziano”.

 

 

E ha trovato il suo Geppetto tra gli anziani del parco?
“No, vide un nonno con una nipotina che parlava con il suo bambolotto, ed ebbe l’illuminazione: non doveva fare un vecchietto, doveva dare a Geppetto il candore e l’innocenza di un bambino che parla alla sua marionetta; e fu una chiave decisiva. Poi siccome aveva un’ammirazione sconfinata per Chaplin, si è fatto dare le scarpe di quattro numeri più grandi del suo per avere questo modo di camminare un po’ goffo”.


L’ha mai conosciuto, Charlot?
“Sì, l’ha incrociato una volta in Svizzera, dove Chaplin si era ritirato alla fine della sua vita”.
Quale è l’ultimo ricordo che hai di tuo padre?
“Purtroppo in un letto di ospedale. E’ stato colpito da un’emorragia cerebrale ed è rimasto più di un anno in rianimazione, cosciente e rassegnato al suo destino. Non poteva parlare perché era stato sottoposto alla tracheotomia, ma rispondeva a gesti. Rimpiango il fatto che quando ha avuto l’attacco siano riusciti a salvarlo: se gli avessi potuto risparmiare questo anno di calvario lo avrei fatto volentieri, perché ha sofferto molto”.


Degli ultimi anni, invece, che ricordi hai?
“Mi faceva molta tenerezza perché si erano un po’ ribaltati i ruoli. Abitavamo nello stesso palazzo in piani diversi: ogni tanto veniva a casa mia a curiosare, e mi diceva: “Che stai scrivendo? C’è una particina per me?”.
E’ così che nel 1997 è nato Grazie di tutto con la tua ex moglie Nancy Brilli e il suo ex marito Massimo Ghini?
“Sì, quando l’ho scritto mi ha chiesto se c’era un ruolo per un personaggio anziano. Io gli ho detto che c’era ma l’avevo pensato per Mastroianni e lui si ingelosì molto. Poi Marcello si è ammalato e, come ti raccontavo, mi ha suggerito lui stesso di sostituirlo con mio padre: “Secondo me questo personaggio lo fa anche meglio di me” mi ha detto. Poi poco dopo è morto e io l’ho fatto effettivamente con mio padre”.
Eri molto legato a Mastroianni?
“Gli ho voluto bene perché era una persona affettuosa e generosa. Non amava stare da solo, quindi era il tipo che invitava tutti a cena e pagava lui. Una volta ci siamo incontrati al festival di Cannes – avevo diciotto anni – e insieme abbiamo fatto il giro dei locali a bere. Devo dire che mio padre non frequentava molto il mondo del cinema, però c’erano alcuni colleghi per cui provava sincero affetto, e Marcello era uno di questi”.
 

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.