Spettacolo

Tennis: un film sul mistero del talento, ritrovo della distruzione, paradossi e anni 80’

Borg McEnroe: il cinema sfida il tennis, ma vincono entrambi

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Il cinema, scriveva uno dei più importanti e geniali critici europei, il francese Serge Daney, somiglia al tennis. Chiunque costruisca un’ inquadratura ingaggia con lo sguardo di uno spettatore un gioco di botta e risposta senza il quale un film non esisterebbe. Le nostre reazioni fanno parte del film e non c’ è grande regista che non sappia portare a rete l’ immaginazione dello spettatore per poi infilarlo con un lungolinea o che non sappia tenerlo occupato con un palleggio costante. Borg McEnroe, il film che ha vinto il premio del pubblico alla Festa del Cinema e che racconta una sfida sportiva leggendaria che culmina con il tie break più lungo, appassionante ed emotivamente micidiale della storia del tennis (nonostante chiunque ami il tennis ne conosca l’ esito, si rimane attaccati alla poltrona e con gli occhi alla palla per tutta la scena), sembra sapere bene che filmare è un po' come giocare per vincere l' attenzione, gli occhi e il cuore dello spettatore visto che ha una progressione impeccabile (il montaggio è sempre davanti allo spettatore: si arriva alla partita finale quasi con sorpresa), una resistenza e pazienza da professionista (davvero i due non si incontreranno e parleranno mai al di fuori del campo per tutto il film?), due campioni che sembrano costruiti in opposizione come semidei di un mito: Borg è impassibile, di ghiaccio, palleggiatore instancabile, non lontano dall' afasia, dal comportamento quasi autistico. McEnroe è rissoso, guascone, goliardico, edonista e la sua missione è arrivare il più presto possibile a rete per schiacciare o litigare con un arbitro e il pubblico.


Eppure dentro Borg alberga il vulcano di un adolescente difficile e caratteriale: il primo sedicenne a gareggiare nella storia del tennis in coppa Davis deve al tennis lo strumento per investire, concentrare e neutralizzare una rabbia indomabile ed una emotività rovinosa (il rapporto con l’ allenatore che lo istruisce a questa svolta, interpretato da un grande Stellan Skarsgard, è il cuore del film). McEnroe è un ex teenager condizionato alla competizione da un padre militare, che sogna di essere amato da tutti mentre urla al pubblico il suo disprezzo. Borg McEnroe non è semplicemente un film sul tennis anche se ricostruisce con essenziale dovizia Wimbledon, la chiacchera dei media, la tensione devastante della vigilia degli incontri. È un film sul mistero del talento che spunta e fiorisce nelle condizioni più avverse e negli angoli di mondo più ordinari e impreparati. Nessuno può gestirlo, tantomeno dei giovani atleti.

 

 

 

Ma è anche un film sulla difficoltà di diventare se stessi e sul rapporto mente/corpo (fondamentale in uno sport la cui durata di un gioco può durare l’ eternità di ore), anche se tutto questo è invisibilmente dosato nel flusso di un cinema scattante e spassionato, solerte e umanista. Il regista, il danese Janus Metz, premiato documentarista, aveva già ricostruito la storia dei due in uno speciale, ma qua dimostra abilità sorniona e destrezza nel metterlo in scena con attori ( Shia LeBoeuf e Svennir Gudnason, ma anche Leo Borg, il vero figlio di Biorn, che interpreta il padre dai 9 ai 13 anni) e nel fermarsi prima che la vita sciupi definitivamente la memoria della bellezza avvincente di questo scontro tra titani il cui primo avversario è la fobia della sconfitta.

 

Borg, fuori dal tennis, ritroverà senza difficoltà squilibrio, autodistruzione, smarrimento, McEnrore continuerà a insultare i cronisti pur diventando uno di essi (“Se mi avessero detto 30 anni fa che avrei fatto il commentatore televisivo, avrei risposto 'Non insultatemi'”) ma il finale di armonia fraterna ferma tutto in un istante perfetto. Solo chi ha conosciuto la devastazione psichica della competizione, il destino disumano di dover essere il migliore, può riconoscere se stesso nell’ altro.

 

Mario Sesti

di Mario SestiCritico e Festival Curator