Spettacolo

Vincenzo Mollica e il flop della critica cinematografica italiana.

Più che un esperto pare un lecchino. E’ sempre tutto “bellissimo” a discapito del giornalismo

di |

“Non può neppure immaginarsi di cedere a un giudizio, a un appunto, a un dissenso. Parla sempre bene di tutti”.

Così Aldo Grasso, il più autorevole critico della televisione, descrive la critica secondo Vincenzo Mollica, senza dubbio il più popolare tra i critici televisivi.

Il grande giornalista - è stata la notizia del giorno per un paio di giorni - è andato in pensione il 27 gennaio 2018 a 65 anni, dopo 38 in cui è stato il volto del cinema, della musica e del fumetto in Rai.

Decine di articoli sono comparsi sul web, con commenti da ogni parte del mondo dello spettacolo e dell’informazione in cui si parlava già di “nostalgia” per i suoi servizi; dopo la conferma dei colleghi a La vita in diretta, però, il diretto interessato ha smentito la notizia: “Quando una fake news ti manda in pensione è sempre una bella emozione” ha scritto su twitter.

 

 

Nessuna intenzione di ritirarsi, dunque, per il giornalista che dal 1980 - anno del suo ingresso in Rai - ha seguito la Notte degli Oscar e il Festival di Sanremo, quello di Cannes e la mostra di Venezia, condotto programmi musicali come Taratatà e la rubrica culturale del Tg1 DoReCiakGulp!. Il tutto senza mai criticare niente e nessuno; tanto che lo stesso Fofi ha coniato il termine “mollichismo” per definire quel giornalismo fatto di superlativi, dove tutto è bellissimo, fantastico, strepitoso; insomma, esasperatamente buonista. D’altra parte, cos’altro ci si dovrebbe aspettare, da uno che si chiama Mollica, se non che sia un pezzo di pane?

 

 

Eppure i critici del mollichismo la vedono molto diversamente dai battutari e il termine ha finito per diventare un atto di accusa contro il giornalismo compiacente, quello che non fa domande scomode né tantomeno critiche insidiose, ma si mette a disposizione dell’artista di turno, pronto ad offrire il microfono per un piatto di lenticchie. Piatto che, nella marchetta, può assumere i contorni di un immediato ritorno (economico o di altro genere) o del semplice “arruffianamento” con lo scopo di accreditarsi presso determinati ambienti.

 

 

“Accanto ai festival consolidati c’è tutto un proliferare di rassegne con ospiti e di premi dati senza criterio, o meglio con il criterio della disponibilità del premiato di turno a recarsi nella località prescelta per farsi fotografare con sindaci e organizzatori” scriveva qualche anno fa Mario Franco su La Repubblica in un articolo dal significativo titolo Salvateci dal mollichismo, che prendeva di petto “la logica compiacente e marchettara della stampa e della tv, che ormai ha sostituito alla critica la promozione e all’informazione il sunto delle veline degli uffici stampa”

 

 

Ma perché questa tendenza?

 

“Ottenere un posto riservato, ricevere in omaggio il cd con dedica non è la sola motivazione – scrive il regista e storico del cinema - Vale la legge del do ut des: il giornalista di turno sarà a sua volta nel prossimo ufficio stampa, ma anche partecipare al backstage di un cantante famoso, alle prove di un regista alla moda vale il prezzo di un articolo compiacente, senza contare l’effetto Gianni Minà, che aveva un’agenda con Fidel Castro, Fellini e Fiorello, Spielberg, Susan Sontag e Salemme. Poter segnare sulla propria agenda il numero privato di Teresa De Sio, Tiziano Ferro o Massimo Ranieri può ben valere un articolo elogiativo”. “Senza contare – chiosa Franco - che a scriver bene di qualche vip televisivo si rischia finanche un’ospitata e quindi anche su Marzullo ormai nessuno ironizza più”.

 

 

 

D’altra parte, a vedere i programmi, di Marzullo, è difficile non chiedersi con quale criterio vengano selezionati gli ospiti: di certo non la rilevanza culturale, né la popolarità e nemmeno l’amicizia personale con il conduttore.

 

Ma in fondo quelli denunciati da Repubblica sono solo gli eccessi di una prassi assai comune, e a voler essere onesti non si può non dire: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Perché è più facile trovare a Hollywood una verginella che in Italia un giornalista che non ha mai fatto una marchetta, magari su incarico del suo direttore.

 

D’altra parte se Mollica parla bene di tutti è perché parla solo dei suoi amici. Più che un critico o un giornalista, Vincenzo Paperica (come lo ribattezzò Andrea Pazienza) è l’amico degli artisti; un amico che – lavorando per il telegiornale del primo canale nazionale – si è sempre divertito a intervistarli e ospitarli, magari contribuendo anche ad incrementare la loro popolarità.

 

 

Non a caso, in quasi quarant’anni al Tg1, Mollica ha sempre rifiutato la nomina a vicedirettore che gli è stata più volte proposta: perché di certo non è un uomo di potere, e nemmeno un giornalista interessato più di tanto al giornalismo: alla direzione di un telegiornale preferisce la scrittura di una storia per Topolino o il doppiaggio di un cartone animato della Disney, non esitando a trasformarsi egli stesso in un personaggio dei fumetti. Raramente, nella sua carriera, ha sperimentato formule televisive che andassero al dà del classico servizio da Tg o delle interviste cazzeggianti con gli amici di sempre come Roberto Benigni.

 

Tutto questo a differenza dell’altro giornalista con cui divide il monopolio della cultura su Rai Uno: Gigi Marzullo, appunto, che potremmo considerare quasi l’Anti-Mollica.

 

Se Paperica ha rifiutato qualsiasi scatto di carriera scegliendo di occuparsi solo delle sue passioni, Marzullo è diventato addirittura capostruttura e si è arrogato il compito di condurre tutti i programmi di cultura della rete: e così si occupa di musica, teatro, letteratura e cinema senza essere esperto in nessuno di questi campi. Dovendo poi intervistare personaggi di cui non sa assolutamente nulla, si è inventato le proverbiali domande filosofiche, che – al di là dell’aspetto grottesco che le ha rese celebri – hanno l’obiettivo di potersi adattare a qualsiasi ospite e a qualsiasi contesto.

 

 

Peraltro, per ironia della sorte, il programma che ha reso celebre Marzullo – Mezzanotte e dintorni – è stato inventato proprio da Vincenzo Mollica (con il titolo Per fare mezzanotte) anche se ha dovuto soccombere presto al rivale e coetaneo arrivato dalla Campania.

 

Così, se Mollica si prodiga in recensioni buoniste con un entusiasmo che non fa differenza tra Ennio Morricone e Giorgio Panariello, Marzullo lascia che a parlare sia il pubblico in uscita dalla sala (ma raramente vengono montate le stroncature) e i critici abbonati al programma, che sono sempre gli stessi da dieci anni.

 

I critici, già: i critici. Ricordo che all’Università la prima cosa che insegnavano al corso di Metodologia della critica dello spettacolo, è che non bisogna mai dare un giudizio sull’opera che si sta recensendo: il critico deve svelare, analizzare, mai dire se è bella o brutta. Vallo a spiegare a chi mette i pallini.

 

Ebbene, la differenza tra Mollica e la maggior parte dei critici italiani, è che lui esalta tutto, gli altri a volte esaltano e a volte stroncano. E il motivo è semplice: Mollica si compiace sempre perché parla solo dei suoi amici, mentre gli altri si regolano in base alle simpatie e alle antipatie. Se Mollica è il buonista per antonomasia, i suoi colleghi della carta stampata si prodigano spesso nell’arte del cattivismo. Ma sono solo due lati della stessa medaglia, che con la critica seria ha poco a che fare.

 

Non deve stupire: è molto difficile trovare un critico che abbia studiato critica, più facile trovarne con curriculum da sessantottini, post-sessantottini, pupilli alla corte di post-sessantottini; approdati in un giornale hanno riempito la pagina della cultura perché era quella in cui c’era meno concorrenza (in un quotidiano i settori più ambiti sono la politica, la cronaca nera e lo sport).

 

 

D’altra parte l’Italia, si sa, è un paese fondato sull’amicizia. E quindi è considerato perfettamente normale, per un critico, scrivere bene degli amici e male dei nemici o presunti tali. Che spesso sono presunti tali semplicemente perché non frequentano certi salotti.

 

Per dire: non troverete mai una stroncatura severa di un film del compagno Bellocchio o di Dario Argento (che prima di fare il regista faceva il critico) o Gianni Amelio (che tuttora lo fa), ma nemmeno di Carlo Verdone, che pur se poco politicizzato è pur sempre il figlio del più grande critico cinematografico italiano.

 

E se solo i più ingenui tra noi possono meravigliarsi del fatto che Daniele Luchetti (che si è fatto le ossa al seguito di Nanni Moretti) rilasci più interviste su argomenti politici che sulla settima arte, Alessandro D’Alatri - uno dei più grandi e al tempo stesso più bistrattati registi italiani - una volta sbottò che anche le recensioni andrebbero recensite e gli autori sottoposti a stroncature con la loro stessa severità.

 

Moretti, da parte sua, con tutt’altra scaltrezza ha chiamato critici a fare gli attori dei suoi film sin dai primissimi cortometraggi in super8 e non è poi strano che sia diventato uno dei registi italiani più amati dalla critica. Eppure lui stesso, in un delizioso siparietto di Caro diario interpretato da Carlo Mazzacurati, sfogava la sua frustrazione di cinefilo di fronte a certe letture: “Ecco, penso – diceva parodiando le recensioni fighette del cinema americano - ma chi scrive queste cose, non è che la sera prima di addormentarsi ha un momento di rimorso?”.

 

Una volta feci notare ad uno dei più celebri critici cinematografici italiani che era l’unico, tra tutti, ad essere stato inserito nel Dizionario del cinema. Lui mi rispose ridendo: “Perché sono l’unico critico amico dell’autore del Dizionario del cinema”.

 

 

 

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.