Spettacolo

Il finto impegno civile italiano. Sanremo, Meta, Moro e le canzoni riciclate

Tutti si professano impegnati ma in realtà promuovono se stessi

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meta e moro festival di sanremo 2018“Moro ha appena detto che quando canta Non mi avete fatto niente pensa “agli ostacoli della sua vita” e Meta alla sua infanzia. Ma quindi il terrorismo cos'è, un espediente per parlare di cazzi loro?”.

Il twitt firmato Pop Topoi, in tre righe la dice molto lunga sull'ennesimo bluff servito al popolo italiano che, al di là delle polemiche sul Festival della Canzone, rappresenta una buona occasione per parlare della percezione che nel nostro Paese si ha dell'impegno civile; ovvero di quella malattia che potremmo chiamare “savianite” e i cui sintomi sono retorica, enfasi, contenuti sparsi, ricatti morali e pensiero critico azzerato.
 

In realtà, come è noto, la canzone di Ermal Meta e Fabrizio Moro che ha vinto la 68ma edizione del Festival di Sanremo e si prepara a rappresentare l'Italia all'Eurovision Contest, ha fatto discutere soprattutto per l'accusa di plagio: il brano, infatti, non è altro che una canzone di Andrea Febo già presentata a Sanremo giovani due anni fa e riveduta e corretta per l'occasione, con il ritornello identico e il testo delle strofe rivisto insieme a Meta e Moro.
 

Sul fatto che cantanti di successo riciclino canzoni, in realtà, non c'è nulla di nuovo visto che si tratta di una pratica largamente utilizzata anche da giganti della musica: basti pensare a Elton John, che nel 1997 per la morte di Lady Diana fece riscrivere al suo paroliere il testo di Candle in the wind, dedicata 24 anni prima a Marilyn Monroe. Ma anche il grande Fabrizio De André fece una cosa del genere: Hotel Supramonte con la quale rievoca il sequestro subito con Dori Ghezzi in Sardegna, non è altro che una rivisitazione di una canzone di Massimo Bubola (accreditato come co-autore) chiamata Hotel Miramonti.

Non c'è poi bisogno di citare Adriano Celentano, che ha fatto del riciclo una vera e propria cifra stilistica, da Napoleone, il cowboy e lo zar del 1968 divenuta L'uomo di Baghdad, il cowboy e lo zar nel 1991 in occasione della Guerra del Golfo alle mille rivisitazioni di Prisenconinensinanciusol, mentre gli U2 hanno chiuso il loro ultimo album con un brano che riprende una canzone del disco precedente.

 

 

 

Quello che è certo, però, è che nessuna di queste canzoni sarebbe mai stata ammessa al Festival di Sanremo, da sempre rigidissimo sul concetto di inedito, tanto che giusto trent'anni fa Renzo Arbore e Nino Frassica videro bocciata la loro Grazie dei fiori bis perché il titolo e mezza strofa citavano la celebre canzone di Nilla Pizzi, vincitrice della prima edizione del festival nel 1951.
 

Non può dunque che meravigliare (e insospettire) il fatto che oggi si sia scelto di mantenere in gara e far vincere una canzone copiata da un brano, peraltro, presentato proprio a Sanremo, e che a sua volta riecheggiava fin troppo da vicino quel Pensa dello stesso Fabrizio Moro che aveva vinto la categoria delle Nuove Proposte nel 2007; l'improbabile motivazione, poi, è che la parte copiata “non supera un terzo della canzone”: peccato che il terzo in questione è nientemeno che il ritornello e che anche il resto del brano è molto simile pure se essendo in entrambi parlato e con testi diversi è più difficile parlare di plagio.
 

D'altra parte la vittoria di Meta e Moro sembrava scontata sin dall'inizio. Il motivo è semplice, in ogni senso: motivetto semplice e orecchiabile, testo furbo e ruffiano; un vero e proprio aggiornamento di Pensa, confezionato ad hoc per aggiudicarsi anche il trofeo maggiore del Festival con un'altra canzone “impegnata”.
 

E già, perché Moro, con queste canzoni, passa per cantautore impegnato, anche se il risultato del suo impegno nello scrivere i testi corrisponde più o meno alla profondità e la poesia di un tema di quinta elementare.

 

 

Andrea Colamedici e Maura Gancitano l'hanno definito “il manifesto della nostra ipocrisia”: “All’apparenza si tratta di un inno alla forza, al coraggio, alla capacità di rialzarsi dopo l’orrore – scrivono sul blog Tlon - Ma c’è un pozzo che siamo chiamati a osservare, l’incapacità di elaborare il trauma e il dolore. Il testo della canzone afferma che l’odio e la distruzione degli attentati di Parigi, Nizza, Barcellona, Londra, Berlino sono niente, che non contano, che noi non cambieremo niente della nostra vita, anche se abbiamo perso una persona amata. È difficile immaginare una frase che rappresenti meglio l’egocentrismo ipocrita contemporaneo. È l’ossessione del proprio benessere e della propria felicità a tutti i costi, il rifiuto dell’ombra e del lutto che porta a dire l’infantile “non mi hai fatto niente, faccia di serpente”, lo “specchio riflesso” che i bambini si dicono l’un l’altro di fronte ai torti subìti pur di non ammettere di stare male. È l’incapacità di trovare una terza via tra i due opposti: sprofondare nel dolore, nel pessimismo e nella paura o far finta che non sia successo niente”.
 

In realtà i due scrittori probabilmente sopravvalutano il testo che, ad un'attenta lettura, non parla propriamente di terrorismo. Come, d'altra parte, Pensa non parlava di mafia: sono canzoni che più semplicemente, parlano di tutto e non parlano di niente.
 

D'altra parte questo è il livello artistico e civile di Fabrizio Moro: scrisse Pensa dopo aver visto la fiction su Paolo Borsellino e il problema è che la sua conoscenza della mafia si fermò lì. Se quella fiction – come raccontava Giorgio Tirabassi a Worldpass - fece venire voglia a tanti ragazzi di documentarsi e addirittura di intraprendere la carriera nella magistratura, al cantautore romano fece venire voglia solo di scrivere una canzone che gli regalò la celebrità nonostante un testo a tratti addirittura imbarazzante.

 


Si pensi al ritornello: “Pensa, prima di sparare pensa”. Ora, appurato che la canzone parla di mafia e non di legittima difesa o di obizione di coscienza al servizio militare, viene da chiedersi perché Moro, anziché invitare l'ascoltatore a denunciare soprusi, gli dice di pensare prima di sparare, quasi che anziché al Festival di Sanremo ci trovassimo al festival di Scampia o a Rebibbia e la canzone fosse diretta a dei pregiudicati.

Il brano prosegue: “Prima di dire, di giudicare, prova a pensare”. Quale è il significato di questi versi? A volerli prendere sul serio sembrebbero un invito all'omertà e un'intimidazione ai magistrati, quindi quasi una canzone mafiosa anziché antimafia. Ma non bisogna prenderla sul serio: Moro ha semplicemente scritto le prime cose che gli sono venute in mente, che facevano effetto e suonavano bene. Infatti il testo di Pensa non racconta assolutamente nulla. E questo a differenza di Silenzio, la canzone plagiata dal brano di quest'anno che, pur seguendo lo stesso filone retorico, sposa il punto di vista della moglie di un agente di scorta ucciso in un attentato. Racconta, dunque, una storia ben precisa.

Il testo di Non mi avete fatto niente, al contrario, mescola terrorismo, guerra, religione senza dire nulla: è una scatola vuota che punta direttamente al consenso senza passare per il contenuto. Se questa è arte lo sono anche cinepanettoni e la pornografia, perché il meccanismo è esattamente lo stesso: raggiungere un traguardo emotivo senza una forma artistica strutturata.

Non a caso chi difende la canzone e parla di “inno antiterrorismo” è costretto ad appellarsi alla lettera scritta dal marito di una vittima di una strage, letta anche – come sommo ricatto morale – sul palco dell'Ariston prima dell'esibizione.

 

 

Se il testo della canzone fosse stato tratto da quella lettera, allora sì, il brano avrebbe avuto un senso, perché avrebbe raccontato una storia, che è il compito delle grandi canzoni d'autore (è quello che ha fatto, ad esempio, Max Gazzè con La leggenda di Cristalda e Pizzomunno, ispirata a una reale leggenda pugliese).
 

Invece la canzone di Moro e Meta non racconta nessuna storia specifica ma generalizza quanto più possibile: si apre con una sorvolata sugli ultimi attentati terroristici e poi passa a parlare di religione, di fratellanza universale, di guerre in un crescendo di retorica e di enfasi che cavalca quel ritornello tolto di peso da una canzone che parlava di tutt'altra cosa ma che ci sta benissimo visto che tanto questa canzone non parla di nulla.


Da sottolineare anche che il testo non rispetta nemmeno il messaggio fondamentale di quella lettera con cui si fa schermo, e che è ben più profondo. In questo hanno ragione Colamedici e Gancitano: il messaggio del brano sanremese è, semplicemente, che la vita va avanti e non dobbiamo arrenderci alla paura. Tra il coraggio e il menefreghismo, però – è vero – non è poi così facile tracciare un solco. La lettera di quell'uomo, invece, diceva qualcosa di ben più profondo: “Avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza”.
 

 

 

Non è solo il rifiuto della paura, che rivendica l'autore della lettera, ma soprattutto il rifiuto dell'odio, che è un'impresa assai più eroica. Farsi coraggio è perfettamente normale, fa parte dell'istinto di sopravvivenza, mentre rispondere all'odio con l'amore significa davvero andare contro l'istinto, elevarsi oltre la propria debolezza, compiere un miracolo e una rivoluzione salvifica.


Considerando poi che viviamo in un paese che non ha subito, ancora, alcun attentato, ma che pure vive nella crescente paura dell'altro, nella diffidenza e nell'intolleranza, quella lettera avrebbe moltissimo da insegnarci. Ma a Moro e Meta non interessa imparare nulla, anche perché se così fosse Moro – in dieci anni – avrebbe almeno imparato a scrivere le canzoni. In realtà l'unica cosa che interessava ai due cantanti abbonati a Sanremo era sfruttare l'onda emotiva creata dal terrorismo per vincere il Festival: l'obiettivo è stato raggiunto e la canzone si canticchia bene. Quindi tutti contenti.
 

Non hanno scritto niente, non hanno detto niente: l'inno ideale di un Paese inconcludente. 

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.