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Tattoo, il corpo disegnato dal Giappone alle isole Hawaii, dall'antica Roma ai giorni nostri

Tatuaggio Ornamento, vestito e protezione.

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Moda, trasgressione, cultura: oggi il tatuaggio è un po’ di tutto questo. Non era cosi nelle società tribali, dove solo il re, i nobili, e i ricchi potevano permetterselo. Che il tatuarsi abbia una valenza estetica, o che sia impresso a ricordo di un momento importante della propria vita, o ancora, che esprima la volontà di un ritorno alle origini, a valori antichi e profondi che la società moderna sembra avere dimenticato. Il tatuaggio vive oggi un momento di grande rinascita, liberandosi finalmente della coltre di pregiudizi che da decenni lo intrappolava.
In Europa, fin dal 787 d.c., con una bolla papale, la chiesa cattolica ne vietava la diffusione.
In Polinesia il tatuaggio era stato cancellato sotto la pressione missionaria e dell’amministrazione coloniale ed è solo dagli anni 80 del XX secolo che è ricomparso, segnando un ritorno alle origini e un rinnovamento culturale dei popoli polinesiani.
Ciascun arcipelago sviluppa motivi propri con lo scopo di distinguersi dai “popa’a- i bianchi…o dai “tinito”- cinesi e riconoscersi come autoctoni e infine come protesta dei militanti per una rivendicazione politica che vuole l’indipendenza della Polinesia Francese.
Da sempre il ritmo della vita in Polinesia è scandito dalle danze e dal suono dei tamburi: si danza per dare il benvenuto, per raccontare leggende popolari e per incitare i guerrieri alla battaglia. Oggi che tutto questo è solo un ricordo, la danza la si usa per celebrare eventi particolari, come quello del raduno internazionale del tatuaggio, che si è svolto qualche tempo fa a Thaiti scatenando l’interesse di tutti i tatuatori del pianeta.
Per cui non solo folclore e divertimento, ma anche cultura e arte.
Ma dove oggi l’arte del tatuaggio è più sentita e si è evoluta, è nel triangolo del Pacifico, uno spazio immenso che va dalle isole Hawaii alla Nuova Zelanda, per congiungersi con l’isola di Pasqua. All’interno di questo immenso triangolo si trovano gli arcipelaghi delle Samoa, delle Cook, e tutta la Polinesia francese che comprende le isole della Societé, gli atolli delle Tuamotù, per arrivare fino alle isole Marchesi, le Gambier e le isole Australi.
La storia dei popoli della Polinesia è raccontata nei loro tatuaggi sulla pelle. Le incisioni parlano di un lungo viaggio, di un’epopea fatta da audaci marinai, esperti nell’arte della navigazione, che attraversarono il grande oceano blu su piroghe fatte di legno e canne, per trovare le terre dove fondare la loro civiltà.
Analizzare queste migrazioni permette di comprendere meglio l’estensione geografica e culturale della pratica del tatuaggio nel Pacifico del Sud. Ed è in questo vasto perimetro che i tatuaggi si differenziano per il disegno. Il messaggio è nei simboli che ornavano il corpo, che per noi non hanno alcun significato, ma che invece, per chi li sa leggere, raccontano la storia della sua dinastia.

 

Tatuatore polinesiano all'opera



Questo linguaggio del disegno e le tecniche che via via si sono manifestate lungo la storia dell’umanità, ebbero una straordinaria intensità ed evoluzione nelle Isole Marchesi, che possono essere considerate il punto culminante per la spettacolarità dei tatuaggi praticati.
Il corpo veniva totalmente ricoperto con una diversità tale rispetto ad altre culture che i primi europei arrivati su queste isole pensarono che fosse una nuova scrittura (in effetti, per certi versi è come se lo fosse).
Per le popolazioni delle isole New Zelandesi il tatuaggio, oltre a essere un ornamento, è anche un vestito, tant’è che gli uomini, una volta terminato il tatuaggio su tutto il corpo, si coprivano solo i genitali. Le donne, invece, si tatuavano solo le labbra e il mento e, a volte, le gambe e il pube.
L’essere bello per i Maori voleva dire essere rispettato.
I materiali usati erano estremamente semplici: il pigmento non era altro che il nerofumo prodotto dalla bruciatura delle noci di cocco mescolato con acqua tiepida. Il colore è arrivato più tardi. Ancora oggi non c’è niente di sofisticato nei prodotti che si usano per tatuare perché si devono rispettare le norme di sicurezza igieniche per evitare infezioni.
La parola tatuaggio deriva dal polinesiano “Tau-tau” poi diventato “tatau” che letteralmente significa il battere del legnetto sulla lama che incide la pelle per applicare il colore. Il rumore è stato rilevato dal capitano inglese James Cook che, approdando a Tahiti, osservava e annotava tutte le strane usanze della popolazione locale, e trascrisse per la prima volta la parola “Tattow”.

 

Curioso sapere che la nascita dei bellissimi tatuaggi che tutti oggi conosciamo sia dovuta all’antico Giappone dove le dure leggi repressive vietavano alla popolazione di basso rango di portare kimoni decorati. Imposizione che la popolazione non gradì al punto che, in segno di ribellione, la gente cominciò a farsi tatuare sotto i vestiti enormi figure che coprivano tutto il corpo partendo dal collo per arrivare ai gomiti e alle ginocchia. Così il tatuaggio continuò a prosperare e crescere nell’ombra.
Facile comprendere come la Yakuza, la mafia giapponese, adottò la pratica “fuorilegge” del tatuaggio su tutto il corpo. I loro disegni molto elaborati, rappresentavano conflitti irrisolti, riproducendo simboli che intendevano emulare. Ad esempio una carpa rappresentava forza e perseveranza, mentre il leone attitudine a compiere imprese coraggiose.
Mentre Il tatuaggio nel Nord Africa più che un valore estetico, ha lo scopo di prevenire e guarire le malattie o i malefici che sono considerati i principali responsabili delle malattie stesse. Uomini e donne si tatuano sulla mano, sul viso, e sul collo, una stella a cinque punte che spaventa gli spiriti malvagi. Le donne berbere si tatuano una croce sul calcagno per essere protette da malintenzionati, mentre un uccello sulla tempia protegge dal male.


Nell’antico Egitto, il disegno di un pesce o di una palma è il simbolo della vita, mentre il serpente protegge dalle ire del Dio Sole…
I tatuaggi avevamo anche una valenza terapeutica, e rimedio per il mal di testa, e altri malanni.
Il ritorno del tatuaggio in anni più vicini, richiama alla mente la ribellione e la trasgressione. Ne sono un esempio gli anni 60, chi sceglieva di tatuarsi apparteneva al ceto medio-alto ed era, per lo più, mosso dalla voglia di stupire e porsi in alternativa alla mentalità comune. Con i punk, negli anni 70 e 80, il tatuaggio diventa un elemento “contro”, cioè il simbolo di contrapposizione, mentre negli anni 90 il tatuaggio si pone come una scelta di vita personale.
Al di là di quest’ultima interpretazione, emerge con sufficiente chiarezza un altro aspetto essenziale del tatuaggio, vale a dire la sua notevole capacità comunicativa. In un mondo ormai dominato dall’omologazione, dove tutto è urlato e ci si trova in un ingorgo di segni incomprensibili, il tatuaggio diventa un codice, un linguaggio attraverso il quale comunicare in un mondo sempre più intasato di comunicazione.
Ritualità, comunicazione, moda, sottoculture, il tatuaggio oggi ha suscitato meraviglia e consenso, altre, disapprovazione e condanna. Nato come cultura, si perde nell’effimero della moda, ma con caratteristiche tali da essere considerato come un fenomeno postmoderno.

Curiosità: Tra le civiltà antiche in cui si sviluppò il tatuaggio c’è l'Egitto ma anche l'antica Roma, dove, il tatuaggio, venne vietato dall'imperatore Costantino, a seguito della sua conversione al Cristianesimo ("Non vi farete incisioni nella carne per un defunto, né vi farete tatuaggi addosso. Io sono il Signore"). Prima che il Cristianesimo divenisse religione di Stato, molti cristiani si tatuavano sulla pelle simboli religiosi per marcare la propria identità spirituale.

Jerry Bortolan

di Jerry BortolanReporter, giornalista di viaggio ed enogastronomico.