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La nuova Cuba e la cucina. I cambiamenti economici e il turismo americano

Viaggio alla scoperta dell’ Havana tra sigari e ristoranti, evitando le “fregature”.

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“Vado da solo nel campo, con un ‘puro’ in bocca. Mi immergo nel silenzio e sento il vento del Nord”. E’ la sintesi di un’intima emozione di Don Alejandro Robaina, il “papa” dei sigari cubani scomparso nella tarda primavera del 2010 a 91 anni. Lo avevo incontrato, quando aveva solo 84 anni, nella sua “finca”. Mi aveva ricevuto con un amabile sorriso, semicoperto da una nuvola di fumo bianco che usciva dalla sua bocca dopo l’aspirazione di un’enorme sigaro “Robaina”.
E’ con questo suo ricordo e fumando un Behike, il “Puro” più prezioso e straordinario dei Cohiba, che mi accingo a scrivere il mio pezzo su ciò che ho trovato all’Havana dopo 5 anni di mia latitanza dal Paese e il riavvicinamento dei “gringos”, come i cubani chiamano gli statunitensi che sono già calati a frotte sull’isola, per riconquistarla ma questa volta al suono dei dollari, riempiendo di stravaganze rumorose da grande fiera le calle del centro, o scorazzando sul lungomare del Malecon sui sedili di coloratissime Chevrolet e Cadillac cabriolet, sparandosi selfie.


Quale miglior momento per arrivare a Cuba come quello del Festival del sigaro, che si è svolto tra l’Havana e Pinar del Rio, il paradiso verde delle finche (piantagioni), dove si coltivano le più pregiate piante di tabacco del pianeta grazie a uno speciale procedimento biologico e a un microclima perfetto per creare le foglie. Da queste, poi, una volta selezionate e stagionate, nascono i fantastici sigari che tutti conoscono - anche i non fumatori - e che vengono esportati in tutto il mondo. Oggi, il loro valore rappresenta un’importantissima voce economica del Paese, insieme al turismo e alla canna da zucchero.


Dopo un’adrenalinico andirivieni tra l’Havana e Pinar del Rio - i 160 km di strada sono un percorso non proprio tranquillo per le pessime condizioni dell’autostrada - con il fedele David, un factotum di 50 anni conosciuto 20 anni fa, entriamo nelle sale off-limits, riservate ai meeting dei compratori, dove tra i “profumi” emanati dal tabacco che brucia e nuvole azzurine di fumo e bevute di grandi Rom millesimati, i grandi esperti testano qualità e costo dei sigari. David conosce tutto e tutti lo conoscono, apre le porte del diverso e dell’autentico, muovendosi come un’eminenza grigia per farmi evitare le trappole che spesso l’ignaro turista trova in un Paese che non conosce. Una sicurezza averlo per amico: con lui al fianco si esce dai binari del già visto e non si perde tempo.

 

 


Terminata la full immersion nel paradiso trasgressivo “per la salute” con gli imprenditori del settore arrivati da tutto il mondo, mi sono dedicato a osservare come è cambiata la città, e se è cambiata. Quello che si nota subito è una schizofrenia che se da un lato fa lievitare i costi per i turisti dall’altro arricchisce chi lavora nel settore, anche se con le semplici mance. Quello che si coglie è che sono saltati i controlli sulle tariffe degli hotel, sulle stanze che la vecchia nomenclatura affitta ai turisti, sulle corse dei taxi: ora sono scomparsi i tassametri e bisogna contrattarle. Da questa situazione non è rimasta immune la ristorazione: gli economicissimi Paladar, punti di ristorazione familiare situati nelle case a costi bassissimi, sono oggi incalzati dalle numerosissime “chucharie”, dislocate ovunque, dove si mangia un pasto veloce, l’equivalente dei nostri “street food”, aperti sempre in tutte le vie del centro a costi ormai simili ai nostri. Proponendo l’universale pizza, pollo, riso e fagioli neri, e la “sasitas de puerco fritas” (gamba di porco fritta) o minestre a base di - banane, mais, patate, e carni varie. - Ma Il boom del turismo, però ( si calcola che siano oltre i tre milioni e mezzo i visitatori l’anno), ha di fatto creato anche proposte di ristorazione alternative per il turista più esigente che a fine giornata vuole gratificarsi con del buon cibo. Il food, in espansione mondiale, non poteva lasciare isolata l’isola della musica, del sole, del piacere dal percorso innovativo gastronomico che è diventato un grande business per chi lo sa fare, e anche per chi non lo conosce affatto. A questo hanno pensato e provveduto alcun grandi gruppi di hotellerie come il Roc e il Mélia che nelle loro cucine hanno inviato chef francesi, belgi, italiani, per diversificare e creare linee di percorsi enogastronomici alternativi alla cucina creola praticata sull’isola. Se al Melià, nel ristorante “casa Italia”, si mangia la più buona pizza margherita dell’Havana, nello storico Hotel Presidente, Phiipe Laurent Denis - un belga dalle solide radici gastronomiche acquisite nelle cucine di Alain Dukas e successivamente in quelle di Joan Roca, il tristellato chef spagnolo - propone una cucina fusion di grande interesse: ma anche sane gustose “provocazioni” per il target che frequenta Cuba come la straordinaria “soupe d’agneau” e il tempura di gamberoni con salsa agrodolce, e il tonno scottato in tre livelli con frutta tropicale. Piatti realizzati con grande tecnica e sapore.

 

 


Ma c’è stata un’evoluzione anche in ristorazioni tradizionali, come quella del Paladar di “Dona Eutimia” che si trova in una location strategica in pieno centro, in un vicolo di Piazza della Catedral, ora circondato da una moltitudine di ristorantini sempre full. Cinque anni fa, quando lo recensii, c’erano solo 4 tavoli, tutti ben apparecchiati e con un bell’arredamento coloniale: se fosse a Parigi, sarebbe un grazioso ed esclusivo bistrot. Ora, si è trasformato in una elegante “brasserie” ma la sua cucina è rimasta la stessa. Si mangia alla cubana, ma con un tocco di raffinatezza, pesce o carne, con le loro salse a base di spezie che non sempre sono gradite al nostro palato. Comunque, il “polpo all’aglio e olio” è gustosissimo, così anche il “picadillo a la habanera”, un ragù di carne con salsa creola. Prima, i costi per un lunch o dinner erano sui 3 - 4 Cu, circa 3 euro, fino a un massimo di 8 euro per una grillada di Dona Eutimia. Il tutto accompagnato da riso bianco, fagioli, vianda fritas, e insalata. Ora, lo stesso menù costa sui 30 euro.
In questa euforia di apparente libertà imprenditoriale, gli italiani che vivono a Cuba, accasati con donne cubane, hanno pensato di sfruttare il momento per creare posti alternativi alle proposte ricettive della città, creando nuove vie di intrattenimento con ristoranti e agriturismo per incentivare i turisti a recarsi fuori dal centro dell’Havana, a bordo mare o in piccoli villaggi a contatto con la popolazione locale. Una finestra su un piccolo universo bucolico, distante dalle invasioni delle masse turistiche, dai miti un po’ esauriti delle notti calde e del sesso facile. E’ la Cuba dalle radici contadine, che difende a denti stretti i suoi costumi e i suoi riti dagli assalti della modernità. Lo spicchio estremo di una Cuba alternativa, neanche sfiorata dal progresso, di cui non si parla mai. E’ lo spirito genuino di Cuba, che resiste solo nelle campagne.

 

 


Pippo Pugliares, un dinamico e poderoso siciliano che vive lì da 30 anni e che ha attraversato indenne… tutte le varie difficoltà sull’isola, ha capito l’antifona e, in due anni, ha costruito un “alojamento y restaurant”, un grazioso agriturismo inserito tra la folta vegetazione e i fiori a Caimito, un piccolo e tranquillo villaggio che si trova a meno di 20 km dall’Havana, facile da raggiungere per la strada che porta a Pinar del Rio. Il suo nome è “Villa Carmen” e ha otto camere che si affacciano sul patio circondato da una lussureggiante vegetazione e fiori, al costo di 30 euro a notte compresa la prima colazione. Ma la vera chicca del posto, però, a mio parere, è la sua cucina che ho testato con grande goduria e piacere, gestita da una giovane ma timida chef di 22 anni che si chiama Jamisel. Con pazienza, Pippo l’ha istruita sui segreti della cucina italiana e siciliana per poter realizzare piatti che sorprendono per la bontà e gli ingredienti usati. Questo grazie all’imprenditorialità di Pippo che riesce a farsi arrivare dalla Sicilia i capperi dolci di Lipari, l’olio, i pomodorini in scatola, le alici e il parmigiano.

 

 

 

Nei supermercati, poi, trova la pasta Barilla. Preziosissimi alimenti per la base di un buon piatto. Normalmente la cucina italiana all’estero sconta sempre dei compromessi, non a Villa Carmen che è coraggiosa, curiosa, originale. Gli “spaghetti alla Lipari” sono perfetti: al dente, con il gusto e i profumi giusti grazie alla perfetta esecuzione della salsa al pomodoro con i capperi. Se si chiudono gli occhi, sembra di stare alle Eolie. Straordinari sono anche i “rigatoni alla siracusana” e gli spaghetti con “salsa de pescado” , e la perfetta cottura delle aragostine e dei filetti di pesce e “Camarone” spalmati su una salsina di olio, menta e limone. Pura felicità per un italiano in vacanza ai tropici.
 

Jerry Bortolan

Tags: cuba
di Jerry BortolanReporter, giornalista di viaggio ed enogastronomico.