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India: vietato l’alcol ma la droga è ovunque. Rishikes è la città dei Santi fricchettoni

Ricchi occidentali che ostentano “povertà”. Tutto è sacro e abbandonato. Capitale dello yoga e dei Beatles

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RishikeshE’ la città dei santi e dei santoni, la Mecca dei fricchettoni e la capitale mondiale dello yoga, la terra dei templi e dei mille volti di Dio, dove l’alcool è bandito ma le droghe si trovano ovunque.
Rishikesh è il cuore sacro dell’India: una città di 60mila abitanti tagliata in due dal Gange, con una sponda nella giungla e l’altra sull’Himalaya. Qui Elio Germano ha trovato il suo san Francesco e i Beatles scritto cinquanta canzoni, qui puoi cercare te stesso recitando mantra o meditando di fronte al fiume, oppure sfidare le correnti facendo rafting.
Tra le sue strette e caotiche strade incontri santoni, mendicanti, venditori ambulanti, vacche, scimmie, vecchi hippie e – dopo il tramonto – anche qualche tigre o un elefante.
A sei ore di macchina da Nuova Delhi, Rishikesh è un concentrato di tutto il fascino, i colori e le contraddizioni dell’India: la povertà estrema delle baraccopoli e l’edonismo del turismo New Age, gli antichi culti vedici e le “Scuole di saggezza globale”.


Tutto è sacro a Rishikesh, e tutto è abbandonato. Come le vacche e i tori che si aggirano per le strade, sonnecchiano nei parcheggi, frugano tra la spazzatura in cerca di cibo: nessuno le mangia, nessuno le possiede, ma se stazionano troppo di fronte a un bazar o a un tempio qualche bastonata in groppa se la prendono. Come le scimmie, che saltano tra gli alberi e tra i palazzi, giocano con gli specchietti trovati per terra, si spulciano indifferenti e ogni tanto fanno qualche sortita sugli scogli ad ammirare la potenza del fiume e a rubare i vestiti ai bagnanti.

 

 


Come i bambini che cercano di venderti una composizione floreale da offrire al Gange o si affacciano curiosi dalle lamiere delle baraccopoli, case costruite con i rifiuti dalle quali vedi uscire donne che indossano con impeccabile dignità il sari, l’ambito-simbolo dell’India che, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, prescinde dalla classe sociale e dal contesto: pur essendo estremamente elegante e complicatissimo da indossare, infatti, non è un abito da cerimonia ma la veste quotidiana delle donne indiane, che siano ricche o povere, giovani o anziane, settentrionali o meridionali.


A unire le due sponde della città il ponte sospeso Lakshman Juhla, costruito nel 1939 e lungo 137 metri, che offre una vista mozzafiato e un passaggio difficoltoso: passerella tanto lunga quanto stretta, è pensato per far transitare un paio di persone per volta, e per attraversarlo si finisce regolarmente in una calca che comprende pedoni, motorini, mucche e scimmie.


Poi, finalmente, si approda nel quartiere dei templi: che sono innumerevoli, così come sono innumerevoli i volti di Dio che puoi trovarci: da Hanuman - la divinità dal volto di scimmia - a Ganesha (che ha la testa di elefante), dalla dea con la coda di pesce alla nera Kalì dallo sguardo feroce e le quattro braccia, fino a Vishnu e i suoi tanti avatar, ovvero le reincarnazioni, spesso raffigurati con la pelle azzurra (da cui ha preso ispirazione James Cameron per il suo film), il più celebre dei quali è Krisna.

 


A fianco a divinità antiche e moderne, non mancano i santini dei guru più famosi come Osho e Sathya Sai Baba, sedicente reincarnazione di uno dei santi più amati dell’induismo: l’asceta Shirdi Sai Baba, morto nel 1918 e che è un po’ il Padre Pio degli induisti.


Contigua alla strada dei templi c’è “Fricchettonia”, il quartiere hippie dove si aggirano bianchi con gli immancabili camicioni e i capelli rasta, quasi a voler dimostrare che per essere liberi dalle regole bisogna indossare una divisa. In tanti accorrono per il Festival internazionale dello yoga – che ha visto quest’anno anche la partecipazione del Dalai Lama – ma molti sostengono di non essere interessati né alla meditazione né alla spiritualità indiana, ma sono capaci di passare qui anche 6 mesi all’anno semplicemente perché “si sta bene”.


Per alloggiare, oltre ai numerosissimi ashram, ci sono “alberghi diffusi” con le camere arrampicate sulla parte superiore della cittadina, dove si trovano anche molti ristoranti e bar dai nomi suggestivi come “Krishna Café o “Little Buddha” e da cui si gode un’aria fresca e meravigliosi panorami.
Inutile, però, ordinare una birra: in tutto lo stato federale dell’Uttarakhand, infatti, l’alcool è severamente bandito. E se fumare hashish è la cosa più normale (i sadhu non fanno altro tutto il giorno) nei bar e ristoranti bisogna accontentarsi di Coca Cola o acqua e limone (meglio scegliere quella in bottiglia, perché l’acqua corrente non è depurata); a sera inoltrata, però, usando la parola d’ordine “Succo di mela” si può ottenere sottobanco un’ottima bionda in lattina.


Nelle stanze degli alberghi – molto spartane – può capitare di trovare anche qualche bel lucertolone, ma c’è solo da rallegrarsene: sono infatti golosissimi delle zanzare che portano malaria, febbre Dengue ed altre malattie tropicali e che per il resto bisogna tenere lontane con cerotti repellenti non particolarmente salubri.
Tutto è sacro, a Rishikesh, tutto è abbandonato: come il Gange, dove i turisti fanno rafting, gli indiani lasciano lanterne composte da fiori e foglie secche, i santoni vanno a farsi il bagno e a lavare i propri vestiti, gli hippie contemplano il tramonto, mentre i monaci intonano i canti e compiono suggestivi rituali di purificazione sulla riva.

 

 


Tutto è sacro e tutto è abbandonato, a Rishikesh; soprattutto i “sadhu”, i santoni: uomini che hanno rinunciato a tutto e vivono di preghiera e di elemosina in assoluta povertà; un po’ asceti e un po’ barboni, la notte dormono all’aperto, in strada, da dove si spostano solo per raggiungere il fiume o un tempio. Si rifanno a una pratica che risale al IV secolo dopo Cristo e sono riconoscibili dai segni sulla fronte (che cambiano a seconda del Dio a cui sono devoti), gli scarsi vestiti, gli ornamenti che indossano o la pettinatura: i seguaci di Vishnu, per esempio, vestono con tele bianche e hanno due linee verticali dipinte sulla fronte, mentre gli shivaiti prediligono il colore ocra e tre linee orizzontali.


I sadhu sono al tempo stesso ignorati e rispettati dalla popolazione. Di fatto vengono considerati “già morti”, quindi santi: essendo morti al mondo, infatti, sono considerati gli unici uomini puri, che non hanno bisogno di essere cremati e vengono quindi sepolti o gettati, legati a delle pietre, nel Gange.


I guru – maestri di vita e di spirito - invece, li trovi soprattutto nei manifesti con cui pubblicizzano i loro corsi di meditazione o all’interno degli ashram: un po’ monasteri, un po’ ostelli, nascono come luogo di ritiro ma oggi rappresentano soprattutto un alloggio economico dove è possibile anche frequentare corsi di yoga.


Il più celebre degli ashram è senza dubbio quello creato da Maharishi Mahesh Yogi nel 1961 e divenuto oggi la principale attrazione turistica della città: Chaurasi Kutiya.


Qui, esattamente cinquant’anni fa, arrivarono i Beatles per frequentare i corsi di meditazione trascendentale del guru, accompagnati dalle rispettive mogli e fidanzate e da uno stuolo di amici che comprendeva il cantautore scozzese Donovan e Mike Love dei Beach Boys, Mia Farrow con la sorella Prudence e il fratello John, Richard Cooke III - un giovane americano fresco di college - con la mamma Nancy e Ravi Shankar, che già due anni prima aveva iniziato George Harrison alla musica e alla spiritualità indiana insegnandogli a suonare il sitar, nel 1971 avrebbe organizzato con lui il Concerto per il Bangladesh e nel 1983 sarebbe stato candidato all’Oscar per la colonna sonora di Gandhi di Richard Attenborough.

 

 


In realtà, come racconta lo scrittore indiano Ajoy Bose nel volume Across the Universe – The Beatles in India, la reazione dei quattro al viaggio era stata molto diversa: Ringo e sua moglie Maureen erano fuggiti dopo un paio di settimane tormentati dalle zanzare, mentre per Paul e John il soggiorno era stato l’occasione per cambiare donna: McCartney era stato lasciato dalla fidanzata Jane Asher dopo essersi rifiutato di portarla al Taj Mahal (in seguito Asher avrebbe sposato il disegnatore Gerald Scarfe, celebre per le animazioni di “The Wall” dei Pink Floyd); John, invece, pur arrivato in India con la moglie Cynthia, si scriveva tutti i giorni con Yoko Ono e avrebbe divorziato subito dopo.


Quanto a George, nel corso dei mesi passati all’ashram, aveva maturato molte riserve sulla condotta del Maestro, accusato dagli altri yogi e devoti hindu di semplificare troppo le pratiche tradizionali e di farsi pagare per i propri insegnamenti. Swami Saroopanand, successore di Brahmananda Sarasvati, di cui Maharishi era stato segretario, sentenziò che “i guru non vendono la loro conoscenza, la condividono”.


Nonostante questo, il soggiorno indiano era stato estremamente proficuo sotto il profilo artistico: a Rishikesh sono nate ben 48 canzoni dei Beatles, inserite negli ultimi tre album del gruppo e nella colonna sonora del cartone animato psichedelico Yellow Submarine.


Se la più celebre è proprio Across the Universe, pubblicata originariamente nel l’album collettivo benefico No One’s gonna change our world e che contiene anche il mantra “Jai guru deva om”, due brani del White Album raccontano proprio storie accadute nell’asharm: la prima è quella di Prudence Farrow, che si era chiusa nel suo bungalow in una “furiosa meditazione” durante la quale si rifiutava anche di mangiare – determinata ad essere la prima ad arrivare in Paradiso - e per convincerla ad uscire dal suo isolamento John e Paul le avevano dedicato “Dear Prudence”.
“The continuing story of Bungalow Bill” è invece una feroce presa in giro di Richard Cooke e della caccia alla tigre per la quale era partito insieme alla mamma, vantandosi di averne ucciso un esemplare. Il brano, peraltro, contiene anche la prima partecipazione femminile di una donna in una canzone dei Beatles: quella di Yoko Ono nel ruolo della mamma del cacciatore.


Se il soggiorno indiano ha segnato fortemente la musica dei Beatles, senza dubbio ha segnato ancora di più la fortuna del discusso guru: l’impatto mediatico dell’arrivo del gruppo rock più celebre del mondo è stato enorme e seguendo l’esempio di altre celebrità convertitesi alla meditazione trascendentale come Mike Jagger, Marianne Faithfull e David Lynch, migliaia di persone si sono riversate nell’ashram di Maharishi, trasformandolo nel Vaticano della spiritualità hippie.

 

 


Nel corso degli anni ’70 la struttura – che si trova all’interno della giungla - è stata ampliata a dismisura, con la realizzazione di nuovi edifici come l’enorme aula per le lezioni, la cucina capace di preparare il pranzo per 500 persone contemporaneamente e moltissimi nuovi alloggi, tra cui una serie di bungalow dall’aspetto particolarmente curioso, che ricorda quasi i trulli di Alberobello: costruiti tra il 1976 e il 1978 con pietre prese dal letto del Gange, sono piccoli edifici di due piani a pianta circolare, ognuno dotato di servizi ed elettricità. Oltre alla stanza principale a piano terra – dotata anche di dispensa – attraverso una scaletta in muratura si sale alla stanza superiore, dedicata alla meditazione; il soffitto a forma di campana, infatti, crea suggestive risonanze che favoriscono la recitazione del mantra. La cupola è dotata, a sua volta, di un’altra porta che permette di uscire su un terrapieno consentendo di godere del panorama ma anche di raggiungere le cupole degli edifici vicini.


Il paradosso, è che quando si visita oggi (a pagamento) l’ashram, sembra di aggirarsi per le rovine di Pompei, in una sorta di paradossale parco di archeologia contemporanea.


Dopo i fasti degli anni ’70, infatti, gli insegnamenti di Mahariashi si sono allontanati dalla cultura hippie per orientarsi verso quella yuppie (la Meditazione trascendentale veniva proposta al mondo aziendale come strumento per alleviare lo stress lavorativo e incrementare la creatività, la flessibilità, la produttività e la soddisfazione per il proprio impiego), derive magico-sensazionalistiche come il “volo yoga”, parodiate da Alberto Sordi nel 1985 nel film “Sono un fenomeno paranormale” (dove lo yogi diventava il personaggio Baba Sho) e politiche (il “Partito della Legge Naturale” attivo in 42 paesi, che assicurava l’invincibilità ad ogni nazione).


Infine, nel 1992, il guru si è trasferito – per ragioni fiscali – in Olanda (dove è morto nel 2008) abbandonando l’ashram di Rishikesh.

 

 


Oggi tutta la struttura appare fatiscente, sconfitta dalla potenza della natura e ingoiata dalla giungla. Chaurasi Kutiya è infatti diventata una riserva per la tigri (ce ne sono rimaste solo 34), un museo dove sono esposte le foto scattate da Paul Saltzman durante il soggiorno dei Beatles e dove si possono apprendere i fondamenti della Meditazione Trascendentale (che può essere praticata da chiunque senza bisogno di cambiare religione, stile di vita o alimentazione, ma semplicemente praticando i suoi mantra per 15-20 minuti due volte al giorno).

 

Ma soprattutto è un luogo di pellegrinaggio per fricchettoni di tutto il mondo, che meditano tra le rovine, lasciano messaggi sui muri dei vecchi alloggi, ma anche autentiche opere d’arte come i murales dedicati ai Beatles dallo street artist canadese Artxpan, dove – a fianco ai volti dei Fab Four e dello yogi - campeggia ovunque il titolo della celebre canzone dell’estate 1967 divenuto un vero e proprio mantra rock, capace di sintetizzare in una frase tutto ciò che serve per raggiungere il Paradiso: All You Need Is Love”.

Arnaldo Casali

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di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.