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Viaggio in Israele sfatando i falsi miti, e i falsi storici, di Gesù

Cristo amava cenare con gli amici, cucinare per loro, bere vino e passeggiare in montagna.

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 Un pellegrinaggio culinario sulle orme di Cristo, per sfatare luoghi comuni e svelare la reale identità dell’uomo che ha spaccato la storia in due. E’ la singolare iniziativa ideata da don Andrea Ciucci, sacerdote divenuto celebre per i libri dedicati al rapporto tra cucina e religione (Nutrire l’anima. Ricette di pellegrini e viaggiatori, A tavola con Abramo, Mangiare da Dio. Cinquanta ricette da san Paolo a papa Francesco e In cucina con i santi) scritti con Paolo Sartor e tradotti in nove lingue.
“Quando mi invitano in televisione si aspettano che mi presenti con il cappello da chef” racconta; don Ciucci, però, non è un cuoco ma un funzionario del Vaticano, raffinato teologo ed esperto di comunicazione. Insomma niente a che fare con suor Germana o con altre figure di religiosi appassionati di cucina; per lui la convivialità è un’autentica chiave di lettura del cristianesimo: “Gesù non fa prediche ma invita a pranzo, o magari si autoinvita, come nel caso di Zaccheo a Gerico”.

 

In effetti nei Vangeli tutti i momenti più importanti si consumano a tavola: dalle nozze di Cana all’ultima cena, dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci alla cena di Emmaus; dopo la resurrezione Gesù si improvvisa persino cuoco per i suoi discepoli, e non a caso i nemici accusano lui e il suo gruppo di essere “mangioni e beoni”.
I pellegrinaggi organizzati da don Andrea, allora, diventano una vera e propria indagine sulle tracce di Jeoshua ben Josef, e tra una cena beduina nel deserto del Negev, la degustazione di vino a Cana di Galilea e quella di pesce arrosto sul lago di Tiberiade, il prete milanese sfata senza remore luoghi comuni, separando la storia dalla leggenda.

 

L’itinerario non può che partire da Betlemme, città palestinese sulla quale incombe però un insediamento israeliano protetto dal famigerato muro affrescato – tra gli altri - da Bansky.
La Basilica della Natività, protagonista nel 2002, di un drammatico assedio durato 39 giorni, è gestita dalla chiesa ortodossa ed è sorta sopra la grotta in cui – secondo la tradizione – sarebbe nato Gesù.
“In realtà gli storici oggi sono più propensi a ritenere che Cristo sia nato a Nazareth”: i racconti sulla natività, in effetti, sono relativamente tardi, differiscono molto tra di loro, e puntano fondamentalmente a rispondere ai pettegolezzi che circolavano sul concepimento irregolare del Messia (in un passaggio del Vangelo i farisei lo accusano velatamente di essere “nato da prostituzione”).

 

D’altra parte, quando si arriva a Nazareth si capisce perché gli evangelisti abbiano sentito il bisogno di “nobilitare” Gesù facendolo nascere a Betlemme: se oggi è una grande città quasi completamente araba ma sotto il controllo israeliano, duemila anni fa era un minuscolo borgo grande quanto un campo da calcio, tanto che la casa di Maria e quella di Giuseppe sono una di fronte all’altra, distanti poche decine di metri. Di entrambe restano solo pochi ruderi inglobati in basiliche cattoliche, ma una recente scoperta archeologica va a sostegno della loro autenticità: “E’ stata trovata una pietra risalente al primo secolo, con scritto – in greco – ‘Ave Maria’. Questo significa che il luogo veniva venerato già nei primi decenni dell’era cristiana”.
Leggenda senza alcun fondamento storico è invece quella su cui è stata edificata la chiesa ortodossa, sopra la sorgente dove sarebbe avvenuta l’Annunciazione secondo uno dei vangeli apocrifi.

 

La sorpresa, aggirandosi tra le rovine della città ebraica, è scoprire che Cristo era un ragazzo di provincia, snobbato dalle élite e ansioso di andarsene da quel piccolo villaggio per non farci più ritorno. Durante tutto il periodo della sua vita pubblica, infatti, Gesù si appoggerà piuttosto a Cafarnao, villaggio sulle sponde del lago di Tiberiade. Oggi della città rimane solo un parco archeologico gestito dai francescani, in cui sono visibili la sinagoga e la casa dello stesso Pietro, sormontata da una chiesa costruita negli anni ’60 e detta “l’astronave” per la sua curiosa forma. Ad attestarne l'antichissima tradizione c'è la testimonianza contenuta nel primo resoconto di un viaggio in Terra Santa, quello compiuto da Egeria tra il 381 e il 384 e il cui manoscritto è stato ritrovato nel 1884 ad Arezzo.

 

Non è difficile, aggirandosi tra le rovine, rivedere il giovane Jeoshua uscire dalla casa di Pietro per recarsi – proprio dirimpetto – in sinagoga, o fare lunghe passeggiate sulla sponda del lago interrogandosi sulla sua missione.

E quello che più colpisce, quando si sale sul monte della Trasfigurazione, si naviga sul lago di Tiberiade, si attraversa il deserto fino a Qumran o ci si ferma a meditare nell'Orto degli Ulivi, è proprio sentire la vicinanza di Gesù nella contemplazione della natura. Riuscire a guardare con i suoi occhi quegli stessi paesaggi è ciò che più ti fa sentire vicino quest'uomo che troppo a lungo abbiamo osservato da lontano su alti crocifissi, mosaici, affreschi.

 

Se la tradizione cattolica ha finito per raccontare la vita di questo “vero uomo” come una sacra liturgia, ritrovarsi a fianco un Gesù che ama stare a cena con gli amici, cucinare per loro, bere vino, passeggiare in montagna e commuoversi di fronte al tramonto, può essere addirittura sconvolgente.

 

Un luogo che sicuramente Cristo, come ogni ebreo, ha visitato, è la tomba dei patriarchi a Hebron: oggi la città più “calda” della regione, in cui vivono 200mila palestinesi e 700 coloni ebrei. Dopo il massacro del 1994 – quando un estremista israeliano entrò con un mitragliatore trucidando decine di musulmani – il mausoleo è stato diviso in due ambienti non comunicanti: nella sinagoga si trovano le tombe di Giacobbe e Lia, nella moschea quelle di Isacco e Rebecca, mentre le tombe di Abramo e Sara sono custodite in camere sulle quali si affacciano entrambi i luoghi di culto: l’unico contatto visivo tra i due settori, però, è protetto da un vetro antiproiettile.

Infine, Gerusalemme: la città tre volte santa oggi non è poi così diversa da come doveva apparire duemila anni fa, con le imponenti mura ricostruite sotto il dominio arabo e il monte del Tempio con il Muro del pianto - il luogo più sacro dell’ebraismo, “dove le preghiere pronunciate arrivano direttamente a Dio” - e la moschea di Omar che risale al 691 e la cui cupola dorata offre uno spettacolo non troppo lontano da quello che doveva offrire un tempo il Santo dei Santi, la “casa di Dio” in cui era collocata l’Arca dell’Alleanza.

 

Se dopo aver gustato una cena a menù biblico in un ristorante ebraico si può restare delusi nello scoprire che il Cenacolo visitato dai pellegrini, in realtà, è un edificio medievale, la Basilica del Santo Sepolcro - che ingloba sia il luogo della crocifissione che quello della sepoltura di Gesù - riserva invece molte sorprese: innanzitutto perché il Calvario non è affatto un monte ma un rialzo di roccia alto appena qualche metro, subito fuori dalle mura della città, in cui i romani eseguivano le crocifissioni: “Si trattava di una cava dismessa, per questo veniva utilizzata anche per seppellire i condannati”.
A fornirci la prova della sua autenticità, paradossalmente è stato il tentativo di cancellarne la memoria: “Quando l’imperatore Adriano rase al suolo la città nel 136, costruì qui sopra un tempio dedicato a Venere. Dal momento che mai un ebreo si sarebbe recato a pregare in una zona funeraria, il luogo non poteva che essere il punto più sacro per i cristiani”.

 

Se per entrare nel sepolcro ufficiale si devono affrontare lunghe ore di fila e rischiare anche la rissa, ben più interessante appare in realtà una cappella abbandonata e in degrado, da cui si accede ad altre tombe scavate nella roccia; sepolcri che, proprio perché ignorati da sempre, sono rimasti perfettamente intatti mantenendo l’aspetto originario della tomba di Cristo.

La basilica è gestita insieme da cattolici, armeni e ortodossi. Anche se “insieme” non è la parola giusta per definire quella che da secoli è una convivenza forzata e conflittuale, regolamentata ancora oggi solo dallo “Statu Quo” emanato dal governo ottomano nel 1852, mentre l’ingresso principale è tuttora affidato a una famiglia musulmana.

D’altra parte Gerusalemme è la terra per antonomasia dove la fede abbraccia l’intolleranza e il suo simbolo più drammatico è la bandiera di Israele piantata nel cuore del quartiere palestinese: “Una famiglia ebrea ha comprato la casa da un arabo, che è stato poi ucciso ad Haifa. Ora è diventata un presidio scortato da soldati e carri armati”.

 

Chi arriva dall’Europa ed è abituato ai duetti di Noa e Khaled, alle storie immaginate dai nostri artisti su novelli Romeo e Giulietta e alle testimonianze di tante associazioni pacifiste, resta stupito di fronte all’assenza di qualsiasi segnale di integrazione e di amicizia tra le due comunità: nei suq e nei negozi si può trovare davvero qualsiasi cosa ma non una sola maglietta che invochi la pace o affianchi le due bandiere.

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.