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QATAR E SIDRA: 215 TONNELLATE DI “FETO” CHE FANNO POLEMICA

Arte, censura e vita umana, quella che non si può bloccare neanche a Doha.

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Dopo cinque anni e infinite polemiche, da qualche mese fa bella mostra davanti all’ospedale per le donne e i bambini Sidra di Doha, in Qatar, la serie di sculture giganti del famoso artista inglese Daniem Hirst.
I quattordici pezzi in bronzo, alti ognuno 5 metri e pesanti complessivamente 215 tonnellate, raffigurano le varie fasi dello sviluppo del feto umano, dal momento subito successivo al concepimento, quando non si hanno altro che poche cellule, a quello in cui il bambino è ormai completamente formato e il parto è ormai imminente.
Il visitatore che, sfidando il caldo torrido del deserto che circonda la città, decide di passeggiare tra le sculture prova anzitutto un vero e proprio senso di stupore e ammirazione per la fedeltà minuziosa con cui l’artista ha voluto raffigurare la fisiologia dello sviluppo embrionale: qualunque studente di medicina potrebbe utilizzare le sculture per un ultimo ripasso dell’esame di anatomia, tanto sono precisi i dettagli e la scansione delle varie fasi, per di più ingranditi all’inverosimile. Si coglie subito la scelta dell’artista di essere assolutamente verista, di non lasciare spazio ad alcuna imprecisione o approssimazione.
È proprio questa scelta che fa però scattare le domande: cosa ha voluto rappresentare davvero l’autore? Perché rendere opera d’arte quello che più precisamente è una raffigurazione più adatta a un atlante scientifico? Con quali conseguenze?
In prima battuta sembra che Hirst voglia dire a tutti i passanti che il processo di sviluppo dell’embrione umano merita di essere visto, guardato, anche contemplato, momento per momento. Nella sua infinità complessità biologica esso è, alla fine, bello, anche se non si hanno spiegazioni, anche se non si conoscono i dettagli perfettamente raffigurati nei diversi passaggi. La passeggiata nel piazzale dell’ospedale Sidra non è così diversa da quella che si può compiere nella sala dei pittori veristi del Louvre: la natura in mostra, nulla più di quella, con tutta la sua forza e tutta la sua potenza e una scienza portentosa che è capace di mostrarcela nei suoi dinamismi e dettagli.
Eppure proprio qui sta l’inganno di cui bisogna essere avvertiti, con buona pace dei puristi della natura e degli idealisti dell’oggettività scientifica. Ciò che si guarda stupiti con il naso all’insù e la memoria che continua a riandare a quelle noiose nozioni di biologia del liceo in cui una professoressa aveva tentato invano di rendere interessante la differenza tra una morula e una blastula, è comunque un manufatto, una copia, un racconto. Ogni opera d’arte, infatti, fosse la più verista e perfetta, offre sempre un punto di vista (perché l’autore ha scelto proprio una sezione del feto e non un’altra? Perché proprio quella fase e non un’altra? Perché il piombo e non il marmo?) che è colto dall’osservatore, il quale occupa anch’egli un punto di vista originale (le sue conoscenze, la sua storia, anche l’ora del giorno e la posizione del sole che illumina la statua). Di più: il punto di vista contiene sempre un’intenzione: perché l’autore ha scelto proprio quelle fasi dello sviluppo embrionale e non altre? E perché ha voluto proprio quelle dimensioni? E perché ha scelto di non raffigurare la madre che lo porta in grembo? Naturalmente, anche in questo caso, lo stesso vale per lo spettatore, che ha deciso di fermarsi, rimasto colpito dallo spettacolo che gli si è parato davanti, dedicandogli del tempo, magari anche solo rallentando la corsa della macchina sulla strada che corre a fianco dell’ospedale.

 

 

 

 


Il racconto offerto da Hirst parla del suo interesse per questa fase specifica della vita umana, comunica la sua passione per la bellezza provocante del dettaglio biologico, dice l’importanza che per lui ha la vita umana. Il suo racconto ne genera poi tanti altri, carichi di emozioni e giudizi, attenzioni e disattenzioni, fino a questo articolo e al suo autore, che ha scelto di raccontarvi, di tutto il suo viaggio a Doha, proprio questo dettaglio e non un altro.
A ben pensarci, però, la questione dei punti di vista non è solo connessa all’opera d’arte, colta nel dialogo tra autore e spettatore, ma riguarda in realtà ogni raffigurazione, anche quella scientifica. Il trattato di anatomia (tanto per stare in tema) più completo e asettico possibile non offre mai una visione perfettamente oggettiva della realtà. Esso è frutto della sua epoca e delle conoscenze scientifiche che la caratterizzano: oggi non si usano più i manuali degli antichi egizi e, quasi certamente, nessuno leggerà tra cento anni il miglior trattato oggi in commercio. Ciò che il testo scientifico presenta è poi sempre l’esito di una domanda (che può cambiare con il tempo e le circostanze) e di uno schema interpretativo della materia specifica e della cultura in cui nasce: così l’anatomia ayurvedica o quella cinese offrono raffigurazioni e narrazioni sensibilmente diverse del medesimo corpo umano. Anche la scienza racconta, offre interpretazioni, presenta punti di vista.
Siamo lontani anni luce dalla comprensione comune che oggi si ha della ricerca scientifica: una pratica oggettiva dotata di una capacità probatoria assoluta. È, nel migliore dei casi, una pia illusione che gli scienziati più onesti non esitano a denunciare. La scienza non offre certezze ma descrizioni parziali il più possibile accurate e ipotesi interpretative il più possibile adeguate a quanto si osserva. Liberi di riconoscerne l’inadeguatezza o la falsità, unico vero atto certo della ricerca scientifica secondo il famoso filosofo Popper.
La natura in quanto tale non esiste o, meglio, non è disponibile all’essere umano e al suo occhio indagatore (scientifico o artistico che sia). All’uomo sono concessi solo (o forse fortunatamente) i racconti, sempre particolari, sempre collocati nel vortice dei punti di vista specifici e connotati. In questa particolarità mai del tutto oggettiva e definitiva, piuttosto sempre in continuo dinamismo, si conosce ogni cosa, se ne riconosce il valore e la bellezza, emerge persino quell’appello etico che ogni racconto offre e per questo risulta interessante.
Non è dato conoscere la vita umana nella sua purezza ideale: è possibile però raccontarla e contemplarla, anche in mezzo a un deserto torrido, davanti a un ospedale che tenta di custodirla con ogni mezzo. Che sia questa, la necessità del racconto che permette l’accesso a qualcosa del mistero della vita, l’ennesima provocazione di Hirst? 

Andrea Ciucci

di Andrea CiucciEsperto di cultura, educazione e gastronomia