Inchieste

Matteo Zuppi forse il nuovo papa? Chi è il vescovo sessantottino che Francesco ha fatto cardinale?

Primo membro di Sant’Egidio, figlio di un giornalista e nipote di un cardinale. Romano e nemico di ogni lusso.

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Romano verace, nemico di ogni lusso e formalismo, è un fan di Francesco Guccini e potrebbe essere il prossimo Papa. L’unico italiano dei tredici nuovi cardinali scelti da papa Francesco - ai quali il 5 ottobre consegnerà la berretta rossa - potrebbe anche esserne l’erede designato. Matteo Zuppi, 63 anni, romano, è senza dubbio uno dei vescovi più vicini al pontefice latino-americano per carisma, storia, e anche carattere. Coltissimo e “romano de Roma”, raffinato diplomatico e prete di strada, ecclesiastico esperto ma nemico di ogni lusso o formalismo, vicino ai malati, ai poveri, agli zingari e agli immigrati ma stimato anche in ambienti borghesi, don Matteo sembra concentrare in sé l’essenza del pontificato di Bergoglio, ma non è certo tra coloro che si sono “ricollocati” dopo l’elezione dell’argentino. La sua storia, infatti, parla chiarissimo: nato a Roma l’11 ottobre 1955, come cardinale è nipote d’arte: suo zio era infatti Carlo Confalonieri, prefetto della Congregazione per i vescovi morto nel 1986. Il padre Enrico, invece, era fotografo, giornalista, grafico, strettissimo collaboratore di Paolo VI, inventore del fotogiornalismo e direttore per trent’anni del supplemento domenicale dell’Osservatore Romano, sul quale scrivevano alcuni dei nomi più importanti del cattolicesimo progressista del Novecento, come Lorenzo Bedeschi, David Maria Turoldo e Adriana Zarri.

Durante gli anni al liceo Virgilio di Roma Matteo conosce Andrea Riccardi, un ragazzo che ha appena cinque anni più di lui e nel 1968, in quello stesso liceo,  ha fondato un nuovo movimento religioso: “Parlava del Vangelo a tanti ragazzi – ricorderà Zuppi – in maniera così diretta e al tempo stesso con tanta conoscenza”.

Il gruppo nasce come costola romana di Comunione e Liberazione, ma in pochi anni se ne distacca radicalmente e si stabilisce nella chiesetta di Sant’Egidio a Trastevere.

 

Nato come movimento sessantottino - ribelle e rivoluzionario - la Comunità di Sant’Egidio diventerà una delle realtà più importanti della Chiesa Cattolica, impegnandosi sui fronti più disparati: dall’assistenza ai poveri e agli anziani alle missioni in Africa, dall’ecumenismo e il dialogo interreligioso alla lotta contro la pena di morte e l’Aids, fino alla politica e alla diplomazia internazionale.

Intanto Matteo si laurea in Lettere all’Università “La Sapienza” e nel 1981 è il primo militante di Sant’Egidio ad essere ordinato prete. Come tutti i sacerdoti del movimento – che resta rigorosamente laico – Matteo è alieno da qualsiasi forma di clericalismo e rifiuta anche lo stesso titolo di “don”. 

Viene chiamato a prestare servizio a Santa Maria in Trastevere, la basilica di cui è appena diventato parroco il primo prete entrato nel gruppo – don Vincenzo Paglia – facendone la nuova sede della Comunità.

Nel 1992 don Matteo è tra gli artefici delle trattative che mettono fine alla guerra civile in Mozambico, facendo guadagnare alla Comunità di Sant’Egidio l’appellativo di “Onu di Trastevere” e nel 2000 diventa parroco di Santa Maria  quando Paglia viene promosso vescovo di Terni. 

Dieci anni dopo viene trasferito in periferia, a Torre Angela. Qui dimostra grandi capacità nel saper gestire una delle più grandi parrocchie della diocesi di Roma, tanto che appena due anni dopo – nel 2012 – papa Ratzinger lo nomina vescovo ausiliare di Roma.

Monsignor Zuppi nel 2012 è già un bergogliano ante-litteram: se Giovanni Paolo II pretendeva che tutti i preti romani vestissero la talare e Benedetto XVI aveva riesumato accessori e cappelli ottocenteschi, il vescovo novello continua a vestire in modo informale, persino trasandato, secondo alcuni amici. E alla faccia degli attici da 700 metri quadri amati da famigerati colleghi, Zuppi sceglie di condividere un appartamento a Trastevere insieme a due confratelli: lo stesso arcivescovo Paglia (diventato nel frattempo Presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia) e don Riccardo Mensuali, anche lui della Comunità di Sant’Egidio. La sua camera è una minuscola stanzetta modestamente arredata, che sembra più la cella di un convento che la residenza del vice-vice-vice papa. 

Tre anni e un pontefice dopo, arriva l’inaspettata promozione ad arcivescovo di Bologna. Inaspettata perché generalmente i vescovi vengono scelti nel territorio di appartenenza e i vescovi di Bologna sono sempre stati originari del nord: Zuppi è il primo proveniente dall’Italia centrale dal 1894. 

Quella della rossa Bologna è poi una sede particolarmente strategica e delicata per la Chiesa: da qui è venuto un papa – Benedetto XV – e uno dei più importanti cardinali del Novecento: Giacomo Lercaro, cardinale “rosso” per antonomasia, vicino agli operai e principale ispiratore del Concilio Vaticano II.

In compenso negli ultimi trent’anni Bologna è diventata la principale roccaforte dei conservatori, prima con Giacomo Biffi (che Ratzinger votò al Conclave nel 2005) e poi con Carlo Cafarra, proveniente proprio da Comunione e Liberazione e tra i principali nemici di papa Francesco (è stato uno dei quattro cardinali che nel 2016 lo attaccarono pubblicamente sulla questione della comunione ai divorziati).

Nel 2015 Matteo Zuppi diventa così il secondo arcivescovo della Comunità di Sant’Egidio. Senza alcuna prospettiva, però, di diventare cardinale.

Tra le rivoluzioni di papa Francesco, infatti, c’è quella dell’abolizione delle “sedi cardinalizie”: se nell’ultimo secolo la berretta era legata a determinati incarichi in Vaticano o a diocesi particolarmente importanti, Bergoglio cambia tutto: restano senza cardinale importanti ministeri in Vaticano e città come Torino, Venezia e addirittura Milano, mentre vengono creati cardinali i vescovi di Ancona, Perugia, L’Aquila e l’elemosiniere pontificio. Il papa argentino combatte il carrierismo dei prelati scegliendo i cardinali in modo squisitamente personale e totalmente inaspettato.

Arrivato sulla cattedra di San Petronio, don Zuppi dice subito che “la Chiesa è di tutti, ma proprio di tutti, ma sempre particolarmente dei poveri” e rifiuta di andare a vivere nel Palazzo arcivescovile, scegliendo piuttosto la Casa del clero: “Ho sempre vissuto insieme ad altre persone” spiega. Una scelta che sembra imitare quella del papa che vive in albergo, ma che in realtà – come abbiamo visto – è perfettamente coerente con la sua storia personale.

A Bologna ritrova anche un mito della sua adolescenza: Francesco Guccini, con cui organizza pochi mesi fa un incontro politico sul tema dell’immigrazione al quale invita anche un consigliere comunale della Lega, a testimoniare il desiderio di un autentico confronto.

Ora l’inatteso annuncio dell’imminente porpora lo ha colto durante un pellegrinaggio a Lourdes, dove stava accompagnando gli ammalati della diocesi. 

“Il cardinale è rosso – ha commentato a caldo – perché deve testimoniare fino al sangue. Speriamo di essere buoni testimoni del Vangelo”.

L’apprezzamento ricevuto in questi anni a Bologna è unanime e trasversale, segno della capacità del prete romano di unire cultura e impegno sociale, diplomazia e prese di posizione chiare, radicalità evangelica e rispetto della pietà popolare, con semplicità ma senza semplicismi.

Il cardinal Zuppi è un uomo concreto: non scrive molti libri, non va in televisione, non frequenta i salotti buoni, ma non fa nemmeno proclami politici né ama la provocazione fine a sé stessa: fa il vescovo e dialoga con tutti.  

Probabilmente, in tutto l’attuale collegio cardinalizio, è quello che assomiglia di più a papa Francesco, che proprio per questo potrebbe vederlo come suo naturale erede. 

D’altra parte Bergoglio – sempre più accerchiato da nemici che non vedono l’ora di sbarazzarsene e distruggere la sua rivoluzione cristiana – sta cercando di circondarsi di persone che possano continuare il suo lavoro. E per far questo non esita a ribaltare anche le tradizioni più radicate: basti pensare che tra i 13 neo cardinali c’è persino un prete che non è mai diventato vescovo: il gesuita canadese Michael Czerny.

Non è da escludere allora che il prossimo vescovo di Roma possa essere di nuovo un italiano. E magari romano. 

 

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.