Spettacolo

Esclusiva Intervista allo chef stellato Gennaro Esposito: "La cucina cominciava dalla Francia, poi viaggiando scopri che la cucina italiana è la più ricca"

Amo fare questo lavoro, amo fare la spesa, amo guardare la gente negli occhi quando mangia i miei piatti per capire fino in fondo se è piaciuto o non è piaciuto

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Chi è « Gennarino Esposito chef » e la sua storia gastronomica è nota da molto tempo nel mondo della grande cucina internazionale e io lo conosco da più di vent’anni.

L’ho seguito nel suo percorso e nella sua crescita, a volte anche criticandolo per alcune provocazioni, a mio parere eccessive, ma che lui ha sempre accettato e qualche volta condiviso. L’amicizia che ne è subentrata nel tempo si è formata con il rispetto e la stima professionale reciproca, ed è per questo che ogni tanto ci regaliamo momenti ludici per delle belle chiacchierate fatte in relax. Come questa, al ristorante, seduti sotto la sua ormai famosa Torre, quella del Saracino di Vico Equense con in lontananza lo skyline della baia di Napoli.

Parliamo della vita, della sua gioia di essere diventato padre di un bimbo di un anno e mezzo, dei sogni nel cassetto che ancora non si sono avverati tutti… di aspirazioni e, guarda caso, anche del debordante interesse per quello che sta avvenendo nelle cucine di tutto il mondo. Food, food, food è Il tam tam universale, il cibo è diventato la voce primaria nel mondo e Gennarino con la sua bella faccia solare si lascia andare a raccontare un po’ della sua storia.



Quest’anno, la Torre del Saracino compie 25 anni. Non sono pochi: quando ho cominciato avevo 21 annni e mezzo e per me, ora che sono adulto, non è cambiato niente. Lavoro sempre tanto, come allora.
Si è diventati consapevoli del fatto che il cibo è un aspetto importante della vita, della cultura dei popoli. Poi, è chiaro che è anche una moda, e nelle mode ci sono sempre degli eccessi, come per esempio in televisione, dove intorno al cibo si è sviluppato un interesse forse esagerato ma che dimostra come la gente ne vuole sapere di più, è più curiosa-
Tutto sommato, vedo un’evoluzione molto bella e molto positiva nel mondo. Per esempio, negli ultimi due anni sono stato a Seul, Tokio, San Paolo, New York e in altri posti e ho visto che dappertutto il cibo vive questo momento di entusiasmo.


Ma non ti sembra esagerato che tutto si muove e cresce perché dietro c’è la spinta del business ? Prendiamo il Brasile. L’altro mese è uscita la prima guida Michelin, sono arrivate le stelle a Rio de Janeiro e a San Paolo. Siamo andati a testarle ma le proposte che escono dalle loro cucine non ci emozionano, non sentiamo niente di diverso, di nuovo da quello che già è stato sperimentato da noi vent’anni fa. Così come in altri posti: in Perù il food crea ricchezza con i suoi straordinari prodotti agricoli che sono esportati nel mondo, diventando la prima voce economica della nazione.

Si investe sempre dove c’è più interesse. E il cibo, oggi, è un territorio che incuriosisce moltissimo, magari in maniera superficiale, ma sono i primi passi e più avanti la gente imparerà anche a capire di più. Poi, è chiaro che saper cucinare, emozionarsi a tavola è ancora un’altra cosa.

Giusto ma dove si è fermata la cucina? Di emozione a tavola a detta dei gourmet ce n’è sempre meno.

Secondo me non è cosi, la gente vuole le novità. E anche quando le novità non sono interessantissime, vengono buttate lì perché c’è tanta richiesta di posti nuovi, di ricette nuove, di tecniche nuove, di storie nuove. E, allora, si tende un po’ a prendere tutto quello che c’è. Trent’anni fa, nessun chef diventava famoso a 25 anni. Marchesi, per esempio, è diventato famoso dopo i quarant’anni. Alaimo, a suo tempo, è diventato un caso perché prese la terza stella a 33 anni.

 



Diventare famosi a 25 anni non significa avere una vera capacità ed essere consacrati a un vero successo. Mi sembra che ci sia un copia-incolla e tra i giovani che sono emersi non ho trovato una vera novità che mi abbia stupito, che mi abbia esaltato.


Ma questo è anche colpa e « merito » della comunicazione. Oggi, tutti abbiamo questi dannati telefonini e tutti guardiamo le stesse cose. La nostra generazione invece è più portata a pensare e a guardarsi intorno, ad attingere da fonti di ispirazione più tradizionali, andare a manifestazioni come « Chef to chef », « Identità golose » : sono occasioni di confronto più profonde, meno superficiali che guardare la ricetta sul telefonino. Oggi , c’è la moda dei germoglietti, dei fiorellini. Alla gran parte dei giovani che ho conosciuto manca il mercato che, secondo me, è uno degli aspetti importanti della cucina. Andare al mercato è avere la sensazione esatta della stagione nella quale si è. Spesse volte, al mercato trovi quei prodotti di cui ti sei dimenticato o che non vedi da un sacco di tempo o magari ascolti le storie che sono legate a quei prodotti.
In Italia, dieci anni fa, i Pierangelini, Scabin, Uliassi, Cedroni, Bottura, erano molto diversi tra di loro. Oggi, nel segmento dei giovani, non riesci a trovare quelle differenze che hanno contraddistinto la generazione più adulta. Certo, anche tra i giovani c’è qualcuno che dice qualcosa di diverso, ma mediamente sono abbastanza allineati.
Ieri, a « Chef to Chef », mi dicevano che volevano fare una gita al « Noma » con gli studenti della scuola alberghiera. Ho delle riserve su una scelta di questo tipo che porta come esempio una cucina nata in un territorio dove non c’era niente salvo muschi e licheni. Penso che sia pericoloso offrire ai giovani dei modelli, né giusti né sbagliati, che vanno bene solo in un posto specifico. Se si portano dei giovani per far capire che cos’è la cucina è molto più interessante fare un giro in Italia da nord a sud, dalla trattoria al ristorante medio, al ristorante alto, e far loro capire che cos’è la cucina in Italia.


Certo, prima si costruiscono le fondamenta e poi il tetto.
Ma alla fine della serata, che cosa pensa un cuoco ? Pensa di aver realizzato qualcosa per far piacere alla gente o pensa di aver realizzato qualcosa che lui sentiva di dover realizzare?


Mi stai chiedendo, Gennaro per chi lavori? Per te, per la gente o per la Michelin ? Io credo che in questo lavoro non si possa barare : ci vogliono molta serietà, applicazione e, soprattutto, tanto tempo. Devi dedicare oltre 16 ore al lavoro e lo devi fare tutti i giorni. Devi fare tante cose e poi le devi fare bene.
La prima persona per cui lavoro sono io e io amo fare questo lavoro, amo fare la spesa, amo cucinare, amo guardare la gente negli occhi quando mangia i miei piatti per capire fino in fondo se è piaciuto o non è piaciuto. Soprattutto, sapere perché quando non è piaciuto. Poi, in un lavoro in cui sono a contatto con il pubblico tutti i giorni, sono gratificato dal sorriso delle persone che mangiano i miei piatti e, per fortuna, capita abbastanza frequentemente. Certamente, mi gratificherebbe moltissimo avere un giorno tre stelle Michelin. E’ il nostro obiettivo più importante perché Michelin è un arbitro molto serio, indipendente e affidabile.

 



Secondo te, il successo si raggiunge quanto si è stellati o per il gradimento e consenso che ti danno i tuoi clienti?


Sicuramente la gratificazione e il consenso della gente, ma anche Il fascino e la consacrazione che ti da la guida Michelin è unico e immaginare che un giorno la « Torre del Saracino » possa avere tre stelle mi emoziona molto e mi dà molta carica. In questo momento sono molto contento perché lavoriamo bene e otteniamo dei bei risultati.

Quando sei fuori dalle pentole, dal cibo che cosa fai, come ti rilassi?

Ho sospeso quasi tutti i miei hobby perché oggi voglio stare con mio figlio. Cerco di fare le corse di notte per riuscire a trovarlo sveglio perché mi piace addormentarlo, mi piace cantargli delle canzoncine. Ora, se ho dieci minuti, corro da lui.

Qual è il tema della « Festa a Vico » di quest’anno?


Abbiamo ripreso un tema fatto qualche anno fa e lo abbiamo chiamato il « Ritorno delle mani amiche ». Mani che cucinano insieme, che aiutano, che danno, che prendono : mi sembrava molto bello riproporlo. Quest’anno, oltre al Santobono per i bambini, abbracciamo la causa di un’altra onlus, quella del professor D’Aiuto che si occupa del tumore alla mammella. Cercheremo di comprare il mammografo del valore di 60mila euro. L’anno scorso abbiamo raccolto più di 130.000 euro e quest’anno speriamo di aiutare queste 2 onlus.
Quest’anno, per la serata più importante avremo più di 20 chef a due, tre stelle Michelin. Faremo una cena bellissima e sarà sicuramente un gran divertimento. E poi, secondo me, abbiamo bisogno di vederci. Oggi tutti quanti sentiamo la necessità di incontrarci ogni tanto, di parlarci, di fare il punto su quello che succede nella cucina in Italia e sicuramente Vico è uno di questi momenti.

 



Forse è il Sud quello che stimola di più che ci fa ritornare anche più « umani » .

Il Sud ha bisogno di crederci di più. Il primo elemento deve però essere quello del divertimento nel senso di fare quello che ci piace e a noi piace cucinare. Piace cucinare per una buona causa ma anche guardando quello che ciascuno di noi fa e come lo fa. Questa è una delle cose positive che è successa in questi anni. Io ho visto che ci confrontiamo senza riserve e senza stupide gelosie.

E’ un caso raro in Italia.

Facciamo cose diverse in territori diversi. Abbiamo delle « intelligenze » diverse e non c’è nessun problema nella nostra « Festa a Vico ». Poi, tornando al Sud, il Sud deve crederci di più, dobbiamo sconfiggere una mentalità malsana che abbiamo ereditato e che ci condiziona.

La Francia e le altre culture vi hanno insegnato qualcosa?


Non solo la Francia ci ha insegnato qualcosa. Certo nelle scuole alberghiere, la cucina cominciava dalla Francia. Poi, viaggiando, scopri che la cucina italiana è la più ricca e affascinante ma che ci sono anche altre cucine strepitose. Penso a quella cinese, alla giapponese. Ecco, trovo che quest’ultima sia la più vicina alle nostre corde.
Così, in cucina, le contaminazioni non riguardano solo l’uso delle spezie ma un sacco di altre cose. in Giappone è veramente affascinante, perché c’è il rigore ma c’è anche il sapore, c’è l’ingrediente ma c’è lo chef : è una cucina completa, è una cucina che insegna l’armonia, armonia di tutti gli elementi, dallo chef alla tecnica, al prodotto. Non c’è mai un protagonismo gratuito dello chef e non c’è mai un prodotto buttato lì, a caso : è sempre pensato. Anche quando ti fanno un pezzo di sashimi, la tecnica con cui viene tagliato ti lascia a bocca aperta.


Brevemente, cosa diresti a te stesso, ai tuoi colleghi e ai giovani?

A Gennarino direi di fumare meno, muoversi di più e mangiare meno, nel senso della quantità. Ai colleghi direi che sono veramente fortunato perché sono molto bravi.
Ai giovani, direi di guardare bene la realtà di questo momento e di non smettere di sognare. E poi, in un certo senso, di fare il passo più lungo della gamba cioè di buttarsi, rischiando e facendo sacrifici, perché poi viene premiato il coraggio. Perciò dico che bisogna studiare in Italia perché la palestra vera è qui ed è la vera cucina italiana che ti fa vincere.

Gennarino papà cosa insegnerà a suo figlio?

Mio figlio sembra aver capito già tutto: a un anno e mezzo mangia tutto, dai cavolfiori bolliti al baccala. E’ un bambino curioso che ama la convivialità e questo mi piace molto.

Jerry Bortolan

di Jerry BortolanReporter, giornalista di viaggio ed enogastronomico.