Spettacolo

Ingegneri, miliardari e perfezione grafica. Il cinema della Pixar ci fa vedere la realta' con occhi diversi

Da Steve Jobs a Disney, da Toy Story a Wall-E. Quattro anni per un film.

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Per fare un film della Pixar ci vogliono circa quattro anni, per renderizzare i fotogrammi più complessi ci vogliono fino a due giorni a fotogramma, per rappresentare nella maniera più realistica possibile gocce di pioggia, polvere sospesa nell’aria o la sottile trama di capelli scrutati da un occhio vicino ci vuole il lavoro di ingegneri capaci di stendere chilometri di algoritmi. E’ questa non ordinaria capacità di mettere insieme conoscenze, tecnologie e pianificazione finanziaria che ha fatto sì che la Pixar diventasse forse l’unico studio cinematografico, oggi, diventato più famoso dei titoli dei film che fa (si va a vedere un film della Pixar così come negli anni ’30 si andava a vedere un musical o una commedia della Metro o un’ horror della Universal)? La studio che ha trasformato la CGI (Computer Generated Image) in cinema, al quale la Festa del Cinema ha dedicato una retrospettiva completa (15 lungometraggi e 9 corti altrettanto famosi), non ha conquistato il mondo semplicemente con il proprio hardware ideativo, produttivo, commerciale. Ha disegnato un software, un pensiero, il cui programma è in azione in tutti i film.

 

Quali sono i suoi tratti specifici? Il mondo dell’infanzia non è meno complesso di quello degli adulti (Freud sarebbe rimasto a bocca aperta di fronte al racconto che Inside out fa del rapporto tra interiorità e apparenza della coscienza), l’amicizia è un sentimento non meno importante dell’amore o dell’inclinazione al bene (da Toy Story a Finding Nemo, la Pixar ha trasformato grandi storie di amici in toccanti avventure), il mondo degli oggetti inanimati è un universo carico di bellezza estetica ed affettività (al di là delle innovazioni tecnologiche, buona parte della produzione di un film Pixar è impegnata dalla spietata ricerca dei dettagli della bellezza: la forma di un’ auto, il colore di un divano, lo stile di un carattere).

 

Guidata da John Lasseter, formatosi nelle mitiche aule di CalArs (la scuola fondata in California dallo stesso Disney) insieme a nomi come quelli di Brad Birds (che farà poi The Incredibles), John Musker (alla regia di Aladdin) e Tim Burton, la personalità di Lasseter somiglia a quella della Pixar più di quanto si possa immaginare in una impresa così radicalmente connotata dall’ innovazione tecnologica.

Lasseter ha iniziato lavorando tra le maestranze di Disneyland (faceva lo skipper di una delle navi che facevano il tour dell’ attrazione della giungla), ha poi partecipato ai primissimi esperimenti di animazione al computer della Disney (Tron) e infine approdò alla “computer division” della Lucasfilm a San Francisco.

 

 

E’ nel 1984 che lui ed Edwin Catmull (l’altro cruciale pioniere dell’animazione al computer) mettono a punto il primo short (The Adventures of André and Wally B.): sufficiente per far andare in visibilio tutti gli ingegneri del settore e di spingere Lucas a vendere l’intero reparto ormai maturo per essere una società autonoma. E chi è che finisce per comprarlo? Steve Jobs.

 

Quando nel 2006 la Disney ha comprato per 7,4 miliardi dollari una società che Jobs aveva pagato 10 milioni solo 10 anni prima, ha acquisito non soltanto un know how favoloso insieme a quelli che l’avevano sognato, ideato e messo a punto: ha metabolizzato anche un “software etico” che rimodula impercettibilmente il suo patrimonio ideologico.

 

Al centro del quale non vi sono più animali antropomorfi proiezione di una umanità il cui cuore intoccabile è l’unità della famiglia e l’intangibilità delle sue relazioni: la celebre lampada da tavolo che tenta di governare (educare?) la palla nel primo indimenticabile short, è un papà o una mamma (questa domanda è stata effettivamente posta a Lasseter la prima volta che mostrò lo short ad un esperto ingegnere informatico)?

 

 

Si capisce bene, in un mondo che sta faticosamente cercando, quasi ad ogni latitudine, di creare le più ampie forme di tolleranza per qualsiasi orientamento sessuale, di quale portata simbolica possa essere una domanda di questo genere che qualunque spettatore, come noi, si è implicitamente fatta dopo aver visto quel primo incantevole assaggio di Pixar Touch.

 

Da quando esiste la Pixar guardiamo una lampada da tavolo o un giocattolo per bambini o un soldatino in maniera molto diversa da come li guardavamo prima di Toys (così come entriamo in una doccia con dei sentimenti molto diversi da quando esiste Psycho): la forza del grande cinema, non è soprattutto quella di farci guardare il mondo reale con occhi diversi?

Mario Sesti

Tags: pixar, cinema
di Mario SestiCritico e Festival Curator