Spettacolo

Le più belle rapine al cinema. La finzione, del resto, è una delle leggi non scritte del comportamento di ogni buon rapinatore

L’arte della rapina, al cinema come nella vita, non è una disciplina qualsiasi.

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La più bizzarra, e vibrante, delle rapine cinematografiche più recenti, è forse quella che apre Le streghe son tornate di Alex de la Iglesia, selezionato dalla Festa del Cinema del 2013: in pieno centro di Madrid, un gruppo di criminali travestiti da performer artisti (uno da Gesù, un altro da soldato americano anni ’50: dei nani, fiancheggiatori, sono travestiti da cartoni animati), irrompono in un banco di pegni per rubare una quintalata di anelli d’oro dati in deposito da coppie che non esistono più. Il capo dell’intera operazione è un disoccupato, divorziato, tiranneggiato dalla ex moglie, che è costretto a portarsi dietro il figlioletto, anche durante la rapina, per non perdere il turno della sua possibilità di averlo con sé.  Nel loro grottesco tentativo di fuga, finiranno in un paesino presidiato da streghe dove ne vedranno di tutti i colori. E’ una rapina allo stesso tempo assurda e inventiva, violenta e divertente. Ma come ogni buon spettatore di cinema sa, la loro preparazione coinvolge spesso menti di grande potenziale di calcolo e spietata raffinatezza intellettuale, la loro pianificazione impegna competenze di ogni tipo, dall’ingegneria alla balistica, dall’equilibrismo alla fisica quantistica, dalle nuove tecnologie alla corsa veloce. La loro esecuzione implica inevitabilmente determinazione, sangue freddo e spesso crudeltà e terrore: l’arte della rapina, al cinema come nella vita, non è una disciplina qualsiasi.

 

 


In realtà, la scena della rapina, in quanto tale, è a tutti gli effetti una matrice unica nell’avventurosa storia del cinema. Infatti, il film come racconto, linguaggio, emozione, inizia con The Great Train Robbery di Edwin Stanton Porter, nel 1903, e tutte le volte che mette in scena la preparazione, l’esecuzione e l’esito, spesso controverso, di una rapina, ci porta dentro raffinate pianificazioni tecniche e intellettuali, un teatro d’operazioni di alta drammaticità e infine un faccia a faccia con il destino che non consente finali prevedibili.


Ci sono registi che mettono in scena delle rapine come se fossero operazioni di alta eccellenza fisica ed estetica o di disperata urgenza esistenziale,  come Sidney Lumet (Rapina record a New York, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Onora il padre e la madre) o Jean Pierre Melville che, in I senza nome, racconta una rapina come  un rito di specialisti o eruditi del crimine: tutto si svolge con cura, meticolosità e silenzio come in una sala operatoria.

 

 

Ci sono altri, invece, che innanzitutto ammirano il valore incontrovertibile di un lavoro eseguito con destrezza e professionalità impeccabili, come Michael Mann: in Strade violente il rapinatore è un esperto di metallurgia capace da solo di progettare e costruire raffinati dispositivi tecnologici in grado di aprire qualsiasi cassaforte.

In generale, tuttavia, il cinema non riesce a dare vita a operazioni ad alto rischio e violenza come le rapine senza farci sospettare che il pericolo, il coraggio e la creatività necessari a portarle a termine  non lo rendano in qualche modo affine ad un gesto quasi artistico, complesso come una danza, provocatorio come un happening, ambizioso come un esperimento.

 

In Point Break, che ha affermato il talento di Kathryn Bigelow, la rapina è anche un gesto di ribellione politica. Gli hippies degli anni '70 diventano diabolici rapinatori negli anni '80: le maschere dei presidenti che indossano sono l' ultima derisione del potere possibile. In Killing Zoe di Roger Avary, prodotto da Tarantino, la stessa crudeltà, venata di sadismo, dà luogo ad una rapina in cui la componente di messa in scena (maschere, studiata coreografia di gesti, sincronia di azioni) rimanda fortemente all’idea che gran parte dell’intenzionalità di chi si impegna in operazioni criminali di questo genere sia mosso anche, e soprattutto, dalla teatrale necessità di una messa in scena. La finzione, del resto, è una delle leggi non scritte del comportamento di ogni buon rapinatore che deve saper recitare anche con i propri compagni. Ci sono rapine in cui, da Topkapi a Entrapment, la competizione con la destrezza femminile non è meno complicata, e rischiosa, di quella che i rapinatori ingaggiano con la legge, poiché, spesso, il terzo atto di una rapina, come rivela il bellissimo finale di Il colpo, di David Mamet, ricorda molto da vicino tutte le storie segnate dal tradimento, dalla slealtà e dalla truffa. Ogni buon rapinatore sa che dalla polizia dovrà  guardarsi da solo, ma dai suoi complici potrà farlo solo con l’aiuto di Dio.

 

 


Alla fine, da Rapina a mano armata di Kubrick a Giungla d’asfalto di John Huston a Chi ucciderà Charlie Warrick di Don Siegel (il maestro di Clint Eastwood), fare un buon film su una rapina somiglia un po’ a fare una rapina. Ci vuole uno che ci crede più di qualsiasi altro, che trova i soldi necessari a finanziare persone e mezzi (ovvero un produttore), che convince tutti gli altri a seguire le sue istruzioni (come un regista fa con la troupe e con gli attori).

 

I migliori film sulle rapine possono essere impegnativi quanto una rapina: come avrà fatto Jonathan Glazer a realizzare le straordinarie sequenze della rapina di The Sexy Beast che si svolge interamente sott’acqua, un atto di predazione filmato come una primitiva razzia barbarica?  E tutta la saga di Ocean Eleven, in cui gli ideatori somigliano sempre di più a finanziatori, scienziati, vip, non ricorda proprio il complesso cerimoniale di finanziamento, reclutamento e pre-produzione di uno spettacolo o di un film? Resta soltanto un quesito – lucidamente inciso nel finale dei Soli ignoti: il film con una delle rapine più divertenti della storia del cinema – ma visto che sono così complicate, rischiose, ansiogene, pericolose e dall’esito controverso e aleatorio, non sarebbe di gran lunga preferibile un banale lavoro?

Chi ha visto il film di Monicelli conosce la risposta.
 

Mario Sesti

Tags: rapine, cinema
di Mario SestiCritico e Festival Curator