Spettacolo

Room è uno sconvolgente film da Oscar girato in spazi claustrofobici. Brie Larson ha vinto la statuetta come attrice protagonista ed incarna “l’atroce irrealta'” quotidiana

Un plot da thriller in uno studio sulla violenza e sulla maternità di profondità non ordinaria.

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Room-Oscar-LarsonL'oscar assegnato a Brie Larson come attrice protagonista di Room potrebbe far pensare che il film dell'irlandese Lenny Abrahmson, un tipo colto al punto d' aver ottenuto una laurea in filosofia nel prestigioso Trinity College di Dublino, lo stesso di James Joyce, sia un film come molti altri: dominato da una buona o eccellente recitazione e da una buona storia.
In realtá si tratta di una storia piuttosto sonvolgente e ad essere protagonista del film non è solo la Larson ma anche un bambino James Tremblay che avrebbe meritato l'oscar quanto lei: nella prima ora del film ci sono quasi solo loro due in scena, nella stessa stanza. Una cameretta di pochi metri quadrati dove i due vivono da sette anni, il bambino da quando è nato.
Sequestrata con l'inganno, la mamma è prigioniera di un uomo che la violenta regolarmente dall' inizio della sua prigionia. Tutta la prima parte del film racconta di come questa donna abbia inventato un mondo fantastico e dei rituali di salvaguardia (il bambino dorme in un armadio quando il carnefice la va a trovare) per consentire al bambino, ma anche a se stessa, di sopravvivere in una condizione di cattività e abuso prolungato.
Il prodigio del film sta nell' incarnare sin dalle prime immagini l' irrealtà quotidiana di questo mondo racchiuso in una stanza dove le immagini della tv sono tutte rappresentazioni inventate come se tutto fosse un cartone animato, dove il mondo esterno non esiste, dove ogni istante del tempo è scandito da un gioco, un abitudine, un' agenda minuta di gesti, giochi, fantasie: agli occhi del bambino ogni angolo o oggetto ha un nome ed una personalità in una sorta di mappa geografica e psichica del proprio ambiente concentrato in uno spazio ridotto sul quale piove la luce del quadrato di un lucernario.


È sorprendente come il racconto, agli occhi del piccolo che ha ormai 5 anni, trasformi in un bizzarro incanto un tale inferno: la regia si muove con tale dimestichezza e inventiva all' interno di questo spazio claustrofobico, che anche lo spettatore si sente a suo agio, in questa sorta di cuccia coatta, come il bambino. È una prigione angusta e disumana ma l'affetto e la premura della madre l' hanno trasformata in una sorta di prolungamento dell' utero: riuscirà mai il bambino ad avere un contatto autentico con il mondo?
Quando ciò accade - la madre con uno stratagemma riesce a farlo credere morto costringendo il suo carceriere a liberarsi del corpo e al bambino di fuggire - finiscono sia l'incubo della prigionia che la sua fittizia magia.

 

Room film cinema

 

Tratto da un romanzo di Emma Donaghe, anche sceneggiatrice, il film è ispirato a casi effettivamente accaduti di giovani donne rapite e sequestrate e abusate per anni ma il punto di vista che adotta è inedito e piuttosto sconvolgente. Invece di occuparsi del responsabile, che rimane sullo sfondo e compare solo il tempo necessario a lasciarne intravedere l'instabilità e la fragilità psichica, si occupa in modo esclusivo e ravvicinato delle vittime.
L' uscita dalla prigione, per la madre, è altrettanto impegnativa che la prigione stessa, perché significa affrontare l'attenzione del mondo, la pressione dei media, l' impaccio della famiglia - il padre non riesce neanche a guardare in faccia il nipote nato da tale sopraffazione - e soprattutto la rabbia tenuta in compressione per così tanto tempo, fronteggiata con l' impegno totalizzante dell' amore e la protezione materna.

 

 

Toccherà allora al bambino riuscire a offrire il massimo di empatia e calore: paradossali effetti di una simbiosi di cui la lunga prigionia è responsabile. In fondo il film racconta di una madre ed un figlio che il destino ha provveduto a dotare di un cordone ombelicale immaginario e indistruttibile.
Denso e sorprendente, interamente fatto di interazioni emotive e ferite interiori, di scoperte e condizionamenti, di sfrenata fantasticheria e micidiale realismo delle piccole cose, il film ha uno sguardo ad altezza di cucciolo ma mescola dolore materno e tolleranza infantile, stupore e tragedia, come se i due corpi fossero ancora una sola cosa. Come tutti i migliori film sulle relazioni familiari, ti chiedi chi stia proteggendo chi, chi sia genitore e chi sia il figlio.

Il regista ha trasformato un plot da thriller in uno studio sulla maternità di profondità non ordinaria. Alla fine entrambi i protagonisti ritornano nella stanza dove furono così vicini, l'orrenda prigione che era il loro mondo esclusivo, con un senso di repulsione indivisibile dal rammarico che è la sensazione più penetrante e sconvolgente di un film fuori dal comune.

Mario Sesti

Tags: room, cinema
di Mario SestiCritico e Festival Curator