Spettacolo

Intervista a Elio Germano: da San Francesco a Leopardi passando per Padre Pio

Attore ateo che per studiare è andato tra i santoni in India. Grande preparazione e debutto alla sceneggiatura anche per una fiction su Nino Manfredi.

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elio germano leopardiGiacomo Leopardi e San Francesco sono davvero i personaggi più agli antipodi tra quelli che ho fatto, anche se come tutti gli opposti finiscono per assomigliarsi: uno è tutto testa e dice che il mondo è male, l’altro è tutto corpo e dice che il mondo è bene. Ma nutrono entrambi forme di venerazione e rispetto per il mistero, sognano un mondo di esseri umani vicini l’uno all’altro: in social catena diceva Leopardi, fratelli diceva Francesco. Vivono questo senso di fraternità con le piante, gli animali, la terra”.

Romano, classe 1980, Elio Germano è senza dubbio il più grande attore della sua generazione e uno dei pochi in Italia in grado di trasformarsi in qualsiasi personaggio gli venga affidato. Una recitazione “americana” praticata dai giganti del cinema ma molto diversa dall’istrionismo italiano, dove prevalgono artisti chiusi più o meno sempre nello stesso ruolo.

Se i suoi colleghi vengono puntualmente scelti per interpretare chi “il bello e maledetto”, chi “il buono e rassicurante”, chi “il saggio e idealista”, chi “il balordo schizzato” e chi “il sottomesso”, lui è l’unico ad essere riuscito a sfuggire ad ogni etichetta, mimetizzandosi nel ruolo e riuscendo a passare con disinvoltura dal santo al serial killer.

Come lui – anzi, prima di lui – forse solo Kim Rossi Stuart, Sergio Castellitto, Michele Placido dei tempi d’oro (negli ultimi anni si è ridotto – come attore – ad una parodia di sé stesso) e, ovviamente, il patriarca Gian Maria Volontè, con cui Germano condivide anche il forte impegno politico.

“Non è vero che sono l’unico della mia generazione: abbiamo tanti grandi attori in Italia, ma molti non sono famosi perché purtroppo lavorano poco. Però l’ambizione di chi fa il mio lavoro è sempre quella di potersi confrontare con tante cose diverse”.

Non è certo un caso se ha vestito i panni di molti personaggi reali e molto diversi tra loro: da Marco Baldini a Folco Terzani (figlio di Tiziano), da Ernesto Marchetti (autista di Carlo Verdone) a Padre Pio, passando per Enzo Ferrari, Felice Maniero e Manfredi Borsellino fino a Giacomo Leopardi (per il quale ha vinto il suo terzo David di Donatello), Nino Manfredi e Francesco d’Assisi, di cui ha vestito il saio nel film Il sogno di Francesco diretto dai francesi Arnauld Louvet e Renauld Fely e in cui è affiancato – tra gli altri – da Alba Rohwacher nei panni di Chiara.
Un personaggio forse tra i più lontani dall’attore di origini molisane, che non è nemmeno battezzato e che forse proprio con un approccio estremamente laico è riuscito a liberare il Giullare di Dio dal santino in cui è stato chiuso da ottocento anni di devozione e di luoghi comuni.

 

Elio Germano Francesco D'assisi

 


"Raccontare Francesco d’Assisi come un santo significa allontanare la sua esperienza nella possibilità degli altri. Da questo punto di vista, allora, Il sogno di Francesco è forse il film più francescano che sia stato mai fatto, perché non mette al centro il santo ma i suoi compagni: è un film che parla di una comunità non di un personaggio, e in questo credo che abbia colto davvero lo spirito di Francesco d’Assisi. Il suo messaggio era: “Siamo tutti uguali, ciascuno può fare questo cammino”.

Il film, dopo essere stato presentato in anteprima mondiale il 2 ottobre ad Assisi nell’ambito del festival Popoli e Religioni, è uscito in Italia la settimana successiva e in Francia sotto Natale e si prepara adesso alla distribuzione internazionale.


Che idea avevi di Francesco prima di girare questo film?

“Io non ho avuto un’educazione cattolica ma la figura di san Francesco la conosciamo tutti. O meglio, pensiamo di conoscerla. Ma il bello del mio lavoro è che ti permette di passare mesi a studiare dei personaggi, cambiando completamente la tua prospettiva”.


Un approccio laico ad un santo laico.

“Sì, profondamente laico. E da questo punto di vista quello che mi ha colpito è stata la sua ricerca di gioia e di serenità. Un’esperienza umana molto affascinante che poi la santificazione ha cercato di trasformare in un simbolo”.


E’ vero che sul set, in Francia, cucinavi per tutto il cast?

“Sì, sul set c’era un’atmosfera davvero ‘comunitaria’. Anche perché quando lavori all’aperto dieci ore al giorno, tutti insieme, a piedi nudi e con indosso un saio, beh, si crea una certa fraternità”.


Il tuo è un Francesco “politico”?

“E’ un film politico nella misura in cui racconta una “polis”: una comunità che cerca il sistema per seguire i propri valori. Spesso, però, Francesco è stato raccontato come un rivoluzionario o una sorta di socialista ante litteram, e non lo era: Francesco vuole condividere la povertà, non combatterla”.

Ho letto che per prepararti al ruolo sei andato in India.

“Ho approfittato di un visto ancora aperto, perché c’ero stato da poco. Sono stato nel nord dell’India, a Rishikesh: un luogo dove trovi uomini che gli indiani chiamano santi e noi europei santoni, che vivono in preghiera e assoluta povertà. D’altra parte una cosa che mi ha stupito nel cammino di Francesco e di tanti altri personaggi di altre religioni e di altre epoche storiche, è lo spogliarsi delle ricchezze e abbracciare la povertà. Nel fare questo film ho pensato anche ai percorsi di tante persone del nostro tempo, che davvero si spogliano di tutto e dedicano la loro vita agli altri, come, ad esempio, i medici di Emergency, che con un solo intervento potrebbero fare migliaia di euro e invece se ne vanno sotto le bombe a curare le persone che non hanno niente”.

Viviamo in una fase storica in cui lo scontro religioso si è molto inasprito; Francesco d’Assisi è stato il primo cristiano ad avere un approccio pacifico con l’Islam.

“E ha trovato un sultano che lo ha accolto pacificamente e con grande rispetto. D’altra parte anche in quell’epoca storica – al di là delle crociate, che erano evidentemente una lotta politica – il pensiero religioso era qualcosa di molto simile e trasversale. Quello che mi è capitato nel mio percorso umano è stato proprio di ritrovare le stesse radici in tutte le culture del mondo. In tutti i pensieri religiosi e filosofici viene indicata una strada che suggerisce una soddisfazione e un riempimento nel donarsi agli altri, nel dimenticarsi di sé. Oggi l’industrializzazione, il mercato e il capitalismo allevano le persone con valori funzionali all’economia: l’arricchimento personale, la paura degli altri, la competizione, la difesa, l’idea che si è grandi quando si è sopra gli altri e non quando si è al di sotto; per questo diventa rivoluzionario il pensiero francescano, che poi non è solo francescano: e cioè che dedicarsi agli altri non è una forma di martirio, ma una via al benessere”

 



 

 

 

In quindici anni sei passato dal santo moderno più medievale – Padre Pio – al santo medievale più moderno: Francesco d’Assisi.

“E’ un duro lavoro ma qualcuno deve pur farlo! D’altra parte l’attore è mitomane, individualista ed egoista, quindi interpretare ruoli così lontani tra loro diventa anche un esercizio continuo di essere altro per cercare di uscire da sé. Mettersi nei panni degli altri non va più di moda, per questo rappresenta un allenamento molto interessante, da questo punto di vista”.


Come fai ad immedesimarti in un personaggio tanto lontano da te?

“Prima si studia: quando si affrontano i testi veri e non le narrazioni scolastiche ci si costruisce un’idea su alcune questioni. Quando capisci il cammino umano di una persona riesci anche trovare delle affinità. Ovviamente quando interpreto una personaggio devo vedermi nel suo cammino, sia che faccia un pericoloso criminale sia che faccia un santo, quindi devo per forza trovare quella chiave di umanità, e devo dire che poi rimango sempre stupito di quello che scopro”.


Hai interpretato anche un tuo illustre collega - Nino Manfredi - in una fiction che ti vede debuttare come sceneggiatore. Se con Francesco dovevi uscire dal santino e riscoprirne il vero volto, qui ti devi confrontare con un personaggio iper-mediatico e con un volto che tutti conoscono.

“Beh, certo fa una certa paura interpretare un personaggio tanto amato. Ma per certi versi il santino lo abbiamo fatto qui, perché abbiamo giocato un po’ con i suoi personaggi. Volevamo fare un omaggio e non una copia; qualcosa di diverso rispetto alle biopic a cui ho partecipato in altre occasioni. Vogliamo che sia un omaggio particolare a quello che ci ha regalato Nino Manfredi non per riprodurlo, ma per non dimenticarlo e invogliare chi non lo conosce a riscoprirlo”.


In questo caso hai potuto lavorare con notizie di prima mano.

“Sì ho avuto un grosso vantaggio, avendo scritto il film con il figlio Luca, che ne è il regista. Però devo dire che abbiamo cercato anche, attraverso la sua vicenda, di raccontare altro: la storia della formazione di un giovane attore durante la guerra. Quindi attraverso la vicenda di Nino Manfredi abbiamo raccontato, in qualche modo, anche la vita di tante altre persone”.

 

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.