Spettacolo

Contro La La Land: Hollywood e gli Oscar danno voce anche ad un’ altra America

Un film brutto, deludente e vincente

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la la land cinemaDiciamo che siete appassionati di cinema. Ma che vi piace anche scommettere: i cinefili, diceva un celebre critico cinematografico francese, sono quelli che amano fare delle liste. Ma sono anche quelli che litigano a cena da amici sul giudizio ad un film. Quest’anno la competizione del miglior film sembrava essere fatta apposta per scatenare conflitti del genere. Il favorito era La La Land, che aveva 14 nomination e avrebbe potuto vincerne almeno 7 o 8: se aveste scommesso, alla SNAI, 100 euro su di lui ne avreste guadagnati 115 in caso di vittoria – ma avreste esultato solo per pochi secondi visto che l’ incredibile gaffe finale della cerimonia ve lo avrebbe fatto credere, a voi come ai produttori, con un sadismo involontario ma spietato, solo per pochi attimi.

Tanto per far capire che per molti si trattava di una vittoria annunciata, questa era la situazione scommesse per altri due film, tra le 9 nomination – la categoria del miglior film è l’unica ad averne così tante – Manchester by the Sea era dato 13 a 1 Moonlight 6 a 1. Per chi ci ha creduto, come la Festa del Cinema che ha aperto con questo ultimo film, si è trattato di una vincita più che interessante.

Ma La La Land aveva ottenuto una universalità isterica e gaia di consensi. Le 6 statuette portate a casa sono quasi una delusione rispetto alla messe di premi che avevano preceduto gli Academy Awards.
La La Land è stato scritto, ha riportato in auge un genere morto: il musical. Si tratta di un genere che, tranne un piccolo gruppo di fanatici, non ha mai avuto in Italia il successo della stagione d’oro hollywoodiana, ovvero dagli anni ’40 per un paio di decadi. Il pubblico italiano, che pure ha nei cromosomi l’alternanza di bel canto e recitato del melodramma, non ha mai davvero accettato di buon grado il fatto che due personaggi in una inquadratura, di punto in bianco, possano smettere di parlare normalmente per cantare e ballare. Il film di Damien Chazelle – è il nome del regista: che è il più giovane regista ad essere stato premiato per questa categoria: ha 32 anni e ne dimostra 10 di meno – ripete questo tic teatrale con una autoindulgenza sostenuta ed estenuante. Quasi tutti i veri musical raccontano di qualcuno che vuole sfondare nel mondo dello showbusinnes o che sogna di mettere su uno spettacolo (o un musical). La La Land ripercorre questo tracciato senza significative varianti che non siano il rimpianto per dei sogni che si avverano per entrambi i protagonisti senza che loro coronino il destino di vivere insieme (ma questo era stato già magistralmente raccontato da Scorsese in New York New York). E’ come se qualcuno volesse iniziare un romanzo su un assedio invocando la musa e chiamando Achille ed Ettore ed Elena i protagonisti o iniziasse una novella ambientata in Italia nel 600 con: “Quel ramo del lago di Como”.

 

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Il bello è che lo stesso regista aveva fatto un film davvero notevole rovesciando buona parte degli stereotipi narrativi e sociali di La La Land, ovvero Whiplash, dove la paranoia del successo, la sindrome di scoprire di non possedere il talento necessario (o, ancora peggio, di possederlo senza avere la determinazione o la fortuna di poterlo esercitare: qualcosa di assolutamente inconcepibile nella società e nella cultura americana) erano portati ad un tale grado di estremismo e concentrazione da far atterrare il cinema sull’argomento in un territorio tossico, sorprendente e inesplorato.

La La Land invece fa della gradevolezza e della liquidità, soffice e ipnotica, di set, musica e attori, un fiotto di endorfine cinematografiche energetico e cavo, scintillante e leggermente depressivo: dominano la nostalgia, la malinconia, l’introversione e il blocco linguistico o creativo. Il film ha fatto citare il pantheon hollywoodiano dei grandi classici di Ginger e Fred o Gene Kelly, in realtà il film somiglia assai da vicino all’ imitazione decadente, piena di rammarico e inconfessabile struggimento, che Peter Bogdanovich ne diede nel 1975 con Finalmente arrivò l’amore.

 

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Unica obiezione a tutto questo: Emma Stone. I suoi primi piani, il suo sguardo da cucciolo alieno disneyano, le sue fattezza da dolce fata rettile sono così impressionanti e interessanti da vedere che qualsiasi film gli gira attorno sembra meno interessante della sua semplice presenza in una inquadratura. La statuetta che ha agguantato, così come quella di Casey Affleck (il migliore attore in giro per gli schermi delle nostre cittá, in Manchester by the Sea), insieme a quella di Moonlight, (lirica biografia di un teenager gay e di colore) come miglior film, sono il segnale migliore di una Hollywood che grazie ad una Academy rinnovata (la presidente Sheril Boone Isaacs, la prima donna e afroamericana, ha profondamente riformato le liste dei votanti sulle quali gravava un eccesso di individui bianchi, anziani e maschi), sembra interprete di un’ America vicino ai diritti, alle minoranze, agli esclusi. Il contrario dell’ immagine che il comandante in capo, come è noto, sta laboriosamente diffondendo su tweetter e nella realtà.


Alla luce di tutto questo, ancor più flagrantemente, La la land sembra sospeso nell’ iperuranio lunare dei rimpianti dei suoi protagonisti: la folla balla sulle highway mentre nel mondo vero la protesta permanente, giorno dopo giorno, fa sentire il suono della sua aspra voce senza canto.

Mario Sesti

di Mario SestiCritico e Festival Curator