Spettacolo

Esclusiva Giuliano Montaldo: il re dell’affabulazione. Dopo la guerra mi sono inventato attore senza aver mai visto spettacoli

Ho un grande amore per Gesù Cristo e Benigni con me faceva il cagnotto scodinzolante che mi ringraziava

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Giuliano Montaldo, cinema italiano“Ci sono quattro autori che ho sognato di avere come sceneggiatori dei miei film: si chiamano Luca, Matteo, Marco e Giovanni. Gli evangelisti conoscevano perfettamente le regole della scrittura cinematografica: pensa alla nascita nella stalla, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti, la crocifissione tra due ladroni, e poi il colpo di scena con l'happy ending. Ogni scena ha un'immagine che ti entra nel cuore, nella mente, nelle vene”.
A 87 anni Giuliano Montaldo è tornato a fare l'attore per interpretare, in Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni, un vecchio poeta che si ritrova come badante un teppistello trasteverino, che educherà attraverso un percorso fatto di cultura, amicizia, ma anche avventura (i due andranno alla ricerca di un tesoro nascosto durante la seconda guerra mondiale).


Un ruolo che gli è già valso numerosi premi, e non a caso: nessuno meglio del nuovo presidente dei David di Donatello può interpretare il ruolo del vecchio pieno di racconti e di vita vissuta: perché oltre che un grande regista, l'autore di Giordano Bruno, Sacco e Vanzetti e Marco Polo, è anche e soprattutto un grande affabulatore, un'autentica miniera di aneddoti e curiosità. E se il poeta interpretato nel film di Bruni, pur ispirandosi al padre del regista ha molti elementi autobiografici (l'amicizia con Pertini e Pasolini e addirittura un cammeo di sua moglie Vera Pescarolo nel ruolo della donna amata per tutta la vita) è vero anche che Giuliano Montaldo è in grado di recitare qualsiasi ruolo con molta disinvoltura. D'altra parte è proprio come attore che ha debuttato al cinema 66 anni fa.

 

Genovese, classe 1930, Montaldo ha esordito nel 1951 con Achtung Banditi! di Carlo Lizzani ed è passato dietro la macchina da presa dieci anni dopo con il coraggioso e anticonformista Tiro al piccione che racconta la Resistenza attraverso gli occhi di un giovane che si è arruolato volontario nella Repubblica di Salò, mentre la sua ultima regia – L'industriale – risale al 2011. Nel frattempo è stato presidente di Rai Cinema e ha fondato nel 1995 a Narni il festival del cinema restaurato Le vie del cinema.

 

“Da ragazzino mi piaceva fare il teatro con i burattini. Quando andavo in campagna, in Liguria, i vecchietti del paese come mi vedevano arrivare prendevano le panche, si mettevano in piazza e aspettavano lo spettacolo. Ero la televisione dell’epoca... avevo sei-sette anni. Dopo la guerra mi sono inventato attore senza aver mai visto, in realtà, uno spettacolo, anche perché tra il ‘40 e il ‘45 molti teatri erano stati distrutti. Nella mia parrocchia c’era un teatrino e mi inventai regista a 16 anni di una piccola filodrammatica. Andavo a scuola e recitavo”.



La sua famiglia cosa ne pensava di questa sua vocazione artistica?


“I miei sono sempre stati molto divertiti da questa mia passione e quindi mi lasciavano recitare in diverse compagnie. Così mi vide Lizzani, che era a Genova per i sopralluoghi del suo primo film. E poiché era un film con pochissimi soldi cercava dei ragazzi che abitavano a Genova e non chiedevano granché. Mi offrì un ruolo da protagonista, insieme a Gina Lollobrigida, Andrea Checchi e Lamberto Maggiorani, il mitico protagonista di Ladri di biciclette. Affascinato da questa avventura, accettai di unirmi alla cooperativa che era nata da questo film e con condizioni economiche abbastanza disagiate ci trasferimmo a Roma per il secondo film: Poveri amanti”.



Insomma era un attore.

“Sì, ma già avevo questa curiosità, per quel signore che diceva ‘carrello, primo piano, campo lungo, totale’ ero assolutamente affascinato. E allora mi sono messo vicino a Lizzani”.



Eravate una sorta di compagnia cinematografica?

“Sì, si stava insieme, addirittura a Roma dormivamo nell’ufficio della cooperativa con un letto a castello. Avevamo tanto ottimismo, entusiasmo, che è un bene meraviglioso e forse è quello che manca oggi ai giovani. Eravamo sicuri che valesse la pena di fare dei sacrifici. E insomma ho fatto l'aiuto regista di Lizzani, poi di Petri, il direttore della fotografia per Pontecorvo. Ho lavorato vicino a persone straordinarie, per le quali il cinema era quasi una religione, e quindi poi avendo avuto la responsabilità della seconda unità di film di altri – ho lavorato anche con Leone – mi hanno offerto il primo film da regista”.



Quindi con Tutto quello che vuoi è un po’ tornato alle origini.

“Non l'ho fatto solo con questo film. Ogni tanto qualcuno mi chiama a fare qualche ruolo: ho fatto Celluloide con Lizzani e Un eroe borghese con Placido, Il Caimano con Nanni Moretti e L'abbiamo fatta grossa con Carlo Verdone”.

 

Nel Caimano interpreta il regista di un film su Cristoforo Colombo.

“Perché sono genovese, e poi ho girato Marco Polo. Moretti mi aveva mandato solo le mie scene, per mantenere la massima segretezza. Non ho mai letto la sceneggiatura integrale”.

 

 



Quando Nanni Moretti ha cominciato lei era già uno dei maestri del cinema italiano e lui era molto combattivo con le generazioni precedenti; basti pensare agli scontri con Monicelli e Sordi. Con lei che rapporto c’era?


“Il giovane Nanni era sempre incazzato, sempre polemico. A me divertiva: mi ricordo ad Ischia non gli premiarono Io sono un autarchico che aveva presentato in concorso, e lui se la prese con Sordi, che era in giuria, dicendogli cose furibonde”.

 

 

Ecco spiegato il celebre “ve lo meritate Sordi” di Ecce Bombo...

“Ma a me piaceva, perché un temperamento così è di uno che ci crede. Un conto è una macchina che produce, un conto è un giovane che fa tutto da solo. Quindi in qualche modo qualche buona ragione la sosteneva”.

 

 


Ha notato differenze tra il modo di dirigere suo e quello di Moretti?

“Lui va per selezioni: provando e girando va a cercare la perfezione. Più girando che provando. Invece la tradizione italiana prevedeva molte prove”.

 


Anche Chaplin lavorava in questo modo.

“Purtroppo con Chaplin non ho mai recitato, quindi non posso saperlo! Ma si dice che lui addirittura montasse la scena, la facesse vedere in visioni private, e poi la rifacesse. In Luci della città l’incontro con la fioraia pare che l’abbia girato per undici volte; ogni volta lo faceva vedere ad un pubblico selezionato, e ha ripetuto questi test finché non è stato certo che la scena veniva capita”.

 

 

 


Lei ha conosciuto praticamente tutta la storia del cinema italiano; a partire da Vittorio De Sica.

“Mi raccontò che una volta era in treno e si accorse che l'uomo seduto davanti a lui lo fissava. Infastidito, cercò di nascondersi dietro il giornale. Inutilmente: l'uomo esclamò: 'Ma tu sei Vittorio De Sica!'. E lui - 'sì' - ammise seccato. Ma quello non era un ammiratore, era un vecchio compagno di scuola, che passò un'ora a raccontargli tutta la sua vita. Alla fine gli disse: 'E tu, Vittorio, che hai fatto in tutti questi anni?”.

 

 

Prima diceva di amare molto il Vangelo. Ha mai pensato di fare un film su Gesù?

“Una volta ho pensato a un film dedicato al fratello di Gesù: il secondogenito di Dio che arriva sulla terra ai nostri giorni. Camminava a piedi sui bordi di un'autostrada, vestito come suo fratello, chiedeva un passaggio ma lo evitavano tutti perché pensavano fosse arabo. Viene preso, portato in questura, poi lo lasciano andare. E lui va in un posto da cui vuole cacciare tutti: il Parlamento. Ha un grande successo e di conseguenza arrivano le invidie, allora lui va sul Gianicolo di notte e dice: 'Qui non c'è niente da fare, mio fratello ha avuto la fortuna di lasciare un segno ma questi sono così cinici e assetati di potere, aridi e fanatici che è impossibile dialogare con loro. Erano meglio i farisei”.

 

 

E' una storia che assomiglia molto a quella raccontata da Adriano Celentiano nel suo film Joan Lui.

“E non era mica male, quel film. Poi Adriano Celentano è l'unico a poter rappresentare un uomo venuto da un altro mondo”.

 


Nel film di Nanni Moretti girava un film su Cristoforo Colombo. Nella realtà ha girato quello su Marco Polo... 

“Non ho mai amato molto il mio concittadino. D'altra parte Colombo – da buon genovese – era mosso da interessi economici, mentre quello di Marco Polo è stato un percorso di conoscenza e di dialogo. Peraltro su Colombo sono stati fatti diversi film, mentre su Marco Polo il mio è ancora l'unico”.

 

 

Il suo film ha segnato un'epoca. Io ho ancora l'album delle figurine...

“E’ stato un evento. Io sono stato in Cina e l’ho visto anche doppiato in cinese. E sentire lo zio, Nicolò e lui che parlavano in cinese... beh, erano rimasti lì 25 anni quindi lo parlavano davvero. L’ho visto anche al cinema, e mi hanno detto che la prima l’avevano fatta a Shangai. Alle nove di mattina! Ed era pieno! Sono talmente tanti, i cinesi, e vanno così tanto al cinema...”.

 


A quei tempi si chiamava sceneggiato, oggi si dice “fiction”. Recentemente, tra l’altro, una fiction ha ‘rifatto’ Sacco e Vanzetti. Quale è la differenza tra sceneggiato e fiction?

“Io penso che fiction voglia dire ‘fretta’. In realtà noi abbiamo detto 'facciamo un film': non potevamo immaginare nemmeno ad un prodotto diverso, tanto è vero che in molti paesi Marco Polo è uscito al cinema. E' stato venduto in 77 paesi del mondo”.

 

Oggi la fiction è considerata già in partenza un prodotto minore?

“E’ considerata un prodotto difficilmente esportabile. Anche perché noi avevamo un impianto coproduttivo iniziale molto forte: c’erano gli americani, i tedeschi, i francesi, i giapponesi, la collaborazione dei cinesi. Però c’è stato chi si è mosso per questo. D’altra parte se Marco Polo l’ha fatto a piedi, un produttore lo può fare con l’aereo, di andare a cercare i soldi. Fa anche prima!”

 

 

Sacco e Vanzetti è stato il primo film ad affrontare il tema della pena di morte, e ha avuto anche il merito di riaprire il caso.

“Dopo l'uscita del film gli studenti di giurisprudenza della facoltà di Boston per quattro anni hanno studiato il caso e poi hanno consegnato al governatore del Massachussets Dukakis la loro sentenza: un grave crimine giudiziario. Dukakis ha così istitutito il Sacco e Vanzetti Day, giorno della riabilitazione dei due italiani”.

 

Sacco e Vanzetti erano stati anche vittime della mancanza di integrazione degli immigrati.

“Nino Manfredi mi raccontava cosa significasse essere italiani in America: suo nonno c'era stato tanti anni e tornato in Ciociaria non parlava mai dell'America. Un giorno siccome Nino insisteva, gli disse solo una cosa: “L'America è un grande Paese, dove tutti gli uomini si chiamamano John e tutti i cani si chiamano dog”. Durante i sopralluoghi per la preparazione del film mi avevano indicato una persona che aveva conosciuto Sacco e che ora viveva a New York. Trovai la moglie in casa, chiesi del marito e mi rispose: “Mio marito sta in America”. Stava a Manhattan, dall'altra parte del ponte. Per lei era l'America, perché era il posto dove parlavano la lingua che lei non capiva”.

 

Questo ci aiuta anche a capire gli immigrati di oggi che vengono da noi. Allora si diceva che gli italiani fossero tutti delinquenti...

“Certo, abbiamo esportato Al Capone e Lucky Luciano, ma anche Fiorello La Guardia, Enrico Fermi e Giannini, il fondatore della Banca d'America”.

 

Dopo il suo film su Giordano Bruno, invece, Wojtyla ha chiesto scusa a nome della Chiesa.

“Un film può rappresentare l'apertura di una finestra, uno spiraglio in un mondo che ti invita a saperne di più. Il fatto che improvvisamente anche nelle scuole l'argomento fosse discusso nell'ora di religione mi ha fatto immensamente piacere e ho ringraziato pubblicamente Giovanni Paolo II”.

 

Sono pochissimi gli attori italiani dichiaratamente cattolici; forse il più famoso è stato Alberto Sordi.

“Io gli ho proposto di girare un film su Giuseppe Gioachino Belli ed era felicissimo. Quando gli ho spiegato però che era un personaggio un po' discusso, perché era il censore del Papa, ha cominciato a dirmi: “No Giulià non se po' fa', il diavolaccio se incazza: dovessimo fini' tra le fiamme dell'inferno quello ce se magna”. Ma lui ci credeva davvero. Verso la fine della vita, invece, ce ne sono fin troppi di credenti: quelli che si cagano sotto; parlo di uomini illustri come il compagno Guttuso... chissà magari capiterà anche a me. C'è una barzelletta sul primo volo nello spazio: quando Kruscev abbraccia Gagarin, lui appena tornato dal cielo gli fa: “Attenzione, compagno, Dio c'è!”. La verità è che non è ancora tornato nessuno per dirci se c'è o non c'è”.

 

Quale è il suo rapporto con la religione?

“Io non sono un grande praticante, anche se da bambino ho vinto un premio per aver servito undici messe in una sola domenica. Un chierichetto da record!”.

 

 

 

 

 

E' stato anche un giovane prete nella Cieca di sorrento.

“E quando sono apparso sullo schermo voltato verso l'altare mia madre – cattolicissima – dentro il cinema si è fatta il segno della croce. Penso che avrebbe voluto vedermi prete davvero”.

 

Invece con il tempo si è allontanato dalla religione.

“Ma in realtà ho un grande amore per Gesù Cristo. Questo è il mio unico punto di contatto, tutto il resto mi sembra faticoso da mettere insieme. Quello che mi interessa è: da dove viene? Dalla sua fede. Cosa ha predicato? La tolleranza e la pace. Ha cacciato i mercanti dal tempio, ha difeso anche le donne di mallaffare, ha curato gli infermi, diviso i pani e i pesci. A me quet'uomo piace e allora sono prima di tutto cristiano. Penso a quest'uomo sul Golgota, e anche a Berlusconi che ha rinunciato ad avere la sua tomba: - Quanto costa? - ha chiesto. - 30 milioni di euro -. “Per soli tre giorni?”.

 

A questo proposito Roberto Benigni attribuiva a Berlusconi l'affermazione: “Non è vero che sono convinto di essere Gesù Cristo. Figuriamoci: io ho da pensare alle elezioni, anche perché i sondaggi mi danno vantaggio su Barabba”.

“Mi ricordo di averlo visto, Benigni, tanti anni fa in uno spettacolo in televisione. In un’intervista al Messaggero mi chiesero se c’era all’orizzonte qualche attore giovane. Io risposi: ho visto uno che secondo me è un grande talento: Roberto Benigni, pare che sia uno di cui sentiremo parlare. Qualche giorno dopo ero alla Fonoroma, uno stabilimento di doppiaggio, e sento un dolore alla caviglia: era lui che mi mordeva! Faceva il cagnotto scodinzolante che mi ringraziava!”.
 

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.