Spettacolo

Moro e Berlusconi sono i politici più amati dal cinema italiano

I registi si sono lasciati ispirare ma nessuno ha raccontato davvero la “Loro” storia

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La grande bellezzaL’estetica barocca della Grande bellezza e il ritratto introspettivo del Divo, la metafora decadente di Todo modo e la cronaca mimetica del Caso Moro.
Loro è una vera summa dell’opera di Paolo Sorrentino, ma anche del cinema politico italiano degli ultimi cinquant’anni, sempre sospeso tra satira e ricostruzione storica, omaggio e denuncia, inchiesta e celebrazione. Secondo film incentrato sulla figura di Silvio Berlusconi (ma sembra che ne sia in preparazione già un altro, di produzione americana), Loro è uscito in due parti – come Novecento di Bertolucci e Kill Bill di Tarantino - tra aprile e maggio, nel pieno delle consultazioni per il nuovo governo che hanno visto come ago della bilancia proprio il Cavaliere, ma in mezzo c’è finito anche il quarantennale dell’omicidio di Aldo Moro, con un nuovo film interpretato da Sergio Castellitto. Agli antipodi sotto ogni punto di vista, Moro e Berlusconi sono forse i due politici italiani più celebrati dalla Settima arte. Fatta eccezione, ovviamente, per Benito Mussolini.
Dalla giovinezza vestita da Antonio Banderas e Filippo Timi all’Ultimo atto di Carlo Lizzani e Il leone del deserto di Mustafa Akkad (entrambi con il volto di Rod Steiger) passando per il Tè autobiografico di Franco Zeffirelli, in cui a vestire i panni del dittatore è Claudio Spadaro (che lo ha poi interpretato altre tre volte in Maria José - l’ultima regina ancora di Lizzani, Mafalda di Savoia e Trilussa), sono 45 le produzioni cinematografiche e televisive che hanno ritratto il Duce: la prima è stata nel 1940 Il grande dittatore di Charlie Chaplin (con Jack Oakie nei panni di Benzino Napaloni), l’ultima Sono tornato di Luca Miniero uscito pochi mesi fa, pallido e inutile adattamento del tedesco Lui è tornato in cui all’immaginaria comparsa di Adolf Hitler nella Germania contemporanea è stato sostituito il dittatore nostrano, interpretato da un Massimo Popolizio convinto che per assomigliare a Mussolini basti avere la testa rasata e fare qualche faccetta.

 

Mussolini sono tornato Massimo Popolizio

 


Tra gli altri attori che hanno vestito i panni del fondatore del fascismo figurano anche divi hollywoodiani come George C. Scott e Bob Hoskins, ma il migliore in assoluto resta senza dubbio Mario Adorf nel film Il delitto Matteotti del 1973: una performance tanto mimetica da lasciare senza fiato sul set Vittorio De Sica, che il Duce l’aveva conosciuto personalmente.
L’opera di Florestano Vancini rappresenta il vero capostipite del film di inchiesta politica: come farà Sorrentino nel Divo, il regista ferrarese ricostruisce nei minimi dettagli le sedute parlamentari e offre ritratti iperrealistici dei grandi nomi della politica del tempo, con Franco Nero nei panni di Giacomo Matteotti, Gastone Moschin in quelli di Filippo Turati ed Ezio Mariano in quelli di Alcide De Gasperi, mentre Damiano Damiani è Giovanni Amendola e Riccardo Cucciolla Antonio Gramsci.


Sul fronte opposto si colloca invece Todo Modo di Elio Petri: l’opera che uccise Aldo Moro con due anni di anticipo.
Tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia, il film - uscito nel 1976, quando Moro era il capo del governo - è uno spietato processo alla Democrazia Cristiana e mostra gli esponenti delle varie correnti che si incontrano in un curioso albergo per un ritiro spirituale e finiscono per ammazzarsi tra di loro, uno alla volta, fino allo sterminio completo.
Il film vede come protagonista Gian Maria Volonté nei panni di Aldo Moro, che pure non viene mai nominato ma chiamato sempre “Il presidente”. La pellicola si conclude – in modo profetico e inquietante – proprio con la morte di Moro, che dopo aver camminato sopra ai cadaveri seviziati dei suoi colleghi, viene “giustiziato” con un colpo di pistola.

 

Todo modo Volonté Mastroianni

 


Davvero un fosco presagio di quanto sarebbe accaduto di lì a poco, con scene raccapriccianti divenute realtà (Moro che osserva il cadavere deturpato di un collega all’interno dell’automobile) e che diventa ancora più agghiacciante quando si pensa che se nel film il Presidente calpestava con indifferenza i cadaveri dei compagni di partito, nella realtà sarebbero stati proprio i compagni a “calpestare” il suo corpo, condannandolo a morte con lo stesso ipocrita cinismo descritto da Petri.


L’opera, grottesca e di matrice espressionista, è fondamentale per capire perché proprio Moro sia finito nel bersaglio delle Brigate Rosse: perché proprio la sua mitezza – da lui stesso rivendicata nell’ultima lettera alla moglie - dovesse pagare per le malefatte del partito.


Descritto da Petri come leader conciliante, bonario, che mira ad accontentare tutti ma segretamente è animato da un’infinita sete di potere e di dominio, Aldo Moro incarnava meglio di chiunque altro il ruolo di capro espiatorio per un partito al tempo stesso cristiano e mafioso, rassicurante e stragista, aperto al dialogo e occultatore di misteri.
Si dice che il regista avesse scartato le prime scene girate da Volonté perché l’attore assomigliava fin troppo al Presidente del Consiglio, tanto lo aveva studiato nei minimi dettagli.
Quello studio approfondito, però, tornerà utile al grande attore dieci anni dopo. E’ proprio Volonté, infatti, a interpretare il politico ucciso dalle Brigate Rosse nel Caso Moro di Giuseppe Ferrara, che – otto anni dopo gli eventi e con le indagini ancora in corso – ricostruisce i 55 giorni di rapimento attenendosi rigorosamente ai documenti e alle lettere dello statista.

 

aldo moro brigate rosse

 


Se quello di Petri è un cinema di idee, satirico e metaforico, Ferrara – come Vancini - fa invece film di inchiesta, basati su ricostruzioni fedeli e personaggi citati con nome e cognome: basti pensare a Cento giorni a Palermo sull’omicidio Dalla Chiesa (uscito appena due anni dopo i fatti), Giovanni Falcone con Michele Placido e Giancarlo Giannini (realizzato l’anno dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio) e I banchieri di Dio sullo scandalo del Banco Ambrosiano.


Aldo Moro tornerà sullo schermo nel 2003 con il volto di Roberto Herlitzka in Buongiorno notte di Marco Bellocchio (discussa opera che lavora di fantasia e sembra voler riabilitare gli stessi aguzzini), quello di Paolo Graziosi nel Il Divo di Paolo Sorrentino uscito nel 2008 (dove Moro incarna la cattiva coscienza di Giulio Andreotti, principale responsabile della sua morte): nello stesso anno a vestire i panni di Aldo Moro sono l’attore indiano Roshan Seth in Se sarà luce sarà bellissimo di Aurelio Grimaldi e Michele Placido in Aldo Moro – il presidente di Gianluca Maria Tavarelli, fiction televisiva con cui l’attore pugliese aggiunge il politico suo conterraneo ad una collezione di ritratti che comprende, oltre a Falcone, anche Enzo Tortora, Padre Pio, Trilussa, Giuseppe Soffiantini, Enrico Mattei, Bernardo Provenzano, Vittorio De Sica e – come vedremo – Silvio Berlusconi.


In Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, Aldo Moro è interpretato invece da Fabrizio Gifuni, che la Democrazia Cristiana la conosce bene: figlio di un ex ministro e segretario generale della Presidenza della Repubblica, ha vestito per la televisione i panni di Alcide De Gasperi e quelli di Paolo VI.


L’ultimo dei grandi attori italiani a cimentarsi con la figura dello statista assassinato è oggi Sergio Castellitto, uno che come Placido di “figurine” ne ha collezionate tante, visto che è stato – tra gli altri - Fausto Coppi, Walter Tobagi, Gioachino Rossini, don Lorenzo Milani, Enzo Ferrari, Padre Pio e Rocco Chinnici.
L’attore e regista romano ha interpretato il Presidente nella docu-fiction Aldo Moro – il professore, di impostazione decisamente didattica e andata in onda su Raiuno in occasione del 40° anniversario della scomparsa del politico pugliese, proprio mentre al cinema avveniva la staffetta tra Loro 1 e Loro 2, che – in qualche modo – rappresentano esattamente l’opposto. E certo non solo per il temperamento del protagonista.
Opera vasta, multiforme e discontinua, Loro appare come un concentrato di contraddizioni: denuncia della pornocrazia berlusconiana e al tempo stesso celebrazione di un personaggio affascinante e straordinario, vuole raccontare un pezzo di storia d’Italia ma si sofferma su riflessioni e dinamiche antiche quanto l’umanità.

 

 

Come il Divo indaga il privato di un grande e discusso uomo politico raccontando un brevissimo pezzo della sua vita; il film su Andreotti, però, sposava ritmi alla Tarantino con il cinema d’inchiesta alla Ferrara facendo nomi e cognomi, mentre quello su Berlusconi affianca personaggi chiaramente definiti e addirittura identici a quelli reali (Silvio, Veronica, Noemi Letizia, Mariano Apicella, Mike Bongiorno, Fedele Confalonieri) a figure sotto falso nome (Giampaolo Tarantini diventa Sergio Morra, Lele Mora Fabrizio Sala, mentre Agostino Saccà è il Martino che pur essendo interpretato da un comico fa meno ridere dell’originale nelle intercettazioni) e ruoli ibridi che richiamano più personaggi reali (Kira, il ministro Santino Recchia, l’inquietante maggiordomo Paolo Spagnolo e la parlamentare Kupa Caiafa, interpretata da Anna Bonaiuto che nel Caimano era Ida Boccassini).


La prima idea che viene in mente è che i produttori volessero risparmiare quanto più possibile sulle querele e hanno quindi evitato di chiamare per nome personaggi implicati in processi ancora in corso. Ma non è solo questo: il punto è che sono passati dieci anni dal Divo e oggi i nomi a Sorrentino interessano poco, tanto più che sono nomi in gran parte già dimenticati dalla storia, pur così recente (cosa che ci dà la misura di quanto effimero sia il mondo della politica. Chi si ricorda ancora di Follini, Bondi, che ne è dello stesso Fini?).

 

D’altra parte è stato proprio Il divo l’ultimo film del regista premio Oscar pensato per il pubblico italiano: poi ci sono state solo produzioni anglosassoni, con l’unica eccezione di La grande bellezza, che comunque strizzava l’occhio a Hollywood e guardava apertamente al mercato americano. E’ chiaro quindi che le vicende accadute in Italia dieci anni fa, stavolta, servono solo come pretesto per raccontare qualcos’altro. E senza dubbio la storia di un imprenditore spregiudicato arrivato al governo tra sesso, soldi, divorzi, amanti, ricchezze immense, uno sconfinato egocentrismo, dubbia morale e gaffe a ripetizione, è qualcosa che in questo momento gli americani possono trovare piuttosto familiare.

 

Resta il fatto che Loro è così sfuggente da inibire qualsiasi etichetta: resta un film d’autore al 100%: più Fellini che Ferrara, è un lungo e sublime esercizio di stile che si diverte a giustapporre “scenari”, gag comiche, momenti onirici e surreali, digressioni musicali e improvvise irruzioni nella tragedia (come la sequenza del terremoto di L’Aquila). Lo stesso Servillo imita Berlusconi alla perfezione, ma poi lascia andare il suo accento napoletano quando deve sedurre la casalinga al telefono o cimentarsi in classici partenopei come Malafemmina. Tutto è metaforico in Loro: a cominciare dai dialoghi per finire con il perenne sorriso sfoggiato dal Cavaliere, che lo trasforma quasi in una maschera teatrale.

 

Loro Berlusconi Sorrentino

 


Coerente nella sua dichiarata incoerenza, Sorrentino si propone di raccontare il Bunga Bunga e le notti folli dell’Imperatore a base di sesso e droga e introduce il racconto con un’ora di orge e prostituzioni di ogni genere, ma poi lascia che il protagonista ne esca illibato: per l’intera durata della pellicola Lui non tocca sostanze stupefacenti (anzi, le bandisce dalle sue serate), non si esibisce in alcuna performance sessuale (resteranno delusi quelli che si aspettano di vedere le famose siringhe per tenersi attivo tutta la notte ‘infilzando’ decine di ragazze sul lettone di Putin) e quando ci prova con una ragazzina lo fa con un’eleganza e una galanteria che non viene meno neanche quando quella gli vomita addosso tutto il suo disprezzo: alla fine – a vedere il film – si direbbe che quei festini fossero davvero niente più che serate eleganti con spettacoli burlesque.

 


Insomma Sorrentino dice di voler scavare nella miseria dell’uomo Berlusconi, ma questa miseria non la vediamo mai: sono sempre gli altri – Loro, appunto – a sputargliela in faccia. Silvio appare piuttosto come un seduttore, un inguaribile megalomane, un narciso ossessionato dal potere, non però quello vero – quello di Andreotti, che manovra i fili restando nell’ombra – ma solo quel tanto di potere che serve a nutrire l’insicurezza, a colmare un vuoto esistenziale che nessuna sconfinata ricchezza riesce a riempire, neppure l’amato vulcano al centro della villa, che erutta solo per le grandi occasioni.
Sotto questo profilo il film, se prende le distanze dal Divo, si pone addirittura agli antipodi rispetto a Il Caimano di Nanni Moretti, girato proprio nel periodo in cui è ambientato Loro e al quale aveva partecipato, come attore, lo stesso Sorrentino.

 


Il Berlusconi rappresentato dal regista partenopeo è infatti intimo e privato, persino romantico, mentre quello di Nanni Moretti è tutto pubblico, guardato sempre dall’esterno, tanto da non essere nemmeno il vero protagonista del film, ruolo che spetta invece a un produttore che vuole girare un film su di lui.
Se Toni Servillo più che interpretare diventa fisicamente Berlusconi, con un trucco e una recitazione mimetici e una sceneggiatura che ci lascia entrare nel suo intimo più profondo, nel Caimano Berlusconi è così sfuggente che non c’è un solo attore a interpretarlo ma addirittura quattro: c’è quello vero nelle immagini di repertorio, c’è Elio De Capitani che ne incarna la versione più realistica (quella immaginata dal protagonista durante la lettura del copione), poi c’è Michele Placido che fa sé stesso che fa Berlusconi, e infine, per la profetica sequenza finale, Nanni Moretti in persona che – volutamente – pronuncia le parole reali del Presidente senza imitarne la voce “proprio per restituirne tutta la violenza – aveva spiegato – e liberarle dalla barzelletta in cui le abbiamo chiuse”.

 

berlusconi loro sorrentino

 


Entrambi i registi, dunque, si sono lasciati ispirare alla figura di Silvio Berlusconi, ma nessuno dei due ne ha raccontato davvero la storia. Una storia che pure varrebbe la pena di essere narrata, e tutta: dalle misteriose origini della sua fortuna alla nascita di Milano 2 e Canale 5, dai rapporti con la mafia alla creazione di un impero mediatico ed economico, fino all’ascesa politica, le proverbiali gaffe, la caduta e il ritorno. Ma forse un film non basterebbe, e nemmeno due: ci vorrebbe almeno una serie televisiva, forse più di una. Si potrebbe cominciare, intanto, con The Young Silvio.

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.