Spettacolo

Intervista esclusiva a Terence Hill. La fede è un elemento fondamentale della sua vita e condiviso con Bud Spencer, con cui ha girato 16 film in 27 anni

Da Trinità a Carretto, passando per Don Matteo e la regia.

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Si è fatto conoscere al mondo come Trinità e ha trovato una nuova giovinezza artistica come Don Matteo. Nel frattempo è stato l’unico ad avere avuto il coraggio di sfidare l’icona di Fernandel vestendo i panni di don Camillo.
Insomma con Bibbia e talare, Terence Hill, ha una certa confidenza. E non solo sullo schermo: anche se non ama parlarne in pubblico, la fede è un elemento fondamentale della sua vita e condiviso – peraltro – con Bud Spencer, con cui ha girato sedici film in 27 anni: sembrano tantissimi visto l’enorme successo che hanno dato alla coppia, ma sono in realtà ben poco per una carriera durata fino ad oggi 67 anni, iniziata da bambino con Vacanze col gangster di Dino Risi e proseguita affiancando Claudio Villa, Domenico Modugno, Aldo Fabrizi, Renato Rascel, Claudia Mori, Vittorio De Sica fino ad entrare nel cast del leggendario Il Gattopardo di Visconti.
Solo nel 1967 arrivano gli spaghetti western e il sodalizio con Carlo Pedersoli, che lo rende l’icona di un intero genere cinematografico e uno degli attori italiani più celebri in America. La televisione entra invece nella carriera di Terence negli anni ’90, prima con Lucky Luke (adattamento del celebre fumetto belga) e poi, giusto vent’anni fa, con il clamoroso successo di Don Matteo, in cui per la prima volta recita con la sua voce e che viene esportato in tutta Europa.
All’apice del successo televisivo, Terence Hill ha scelto oggi di tornare al cinema come attore e come regista per confrontarsi con una figura religiosa ben più controversa e meno popolare dei preti di campagna a cui ha prestato il volto: Carlo Carretto; con cui peraltro, Mario Girotti, condivide anche il profondo legame con l’Umbria.
Ex presidente della Gioventù Cattolica, defenestrato clamorosamente ai tempi dello scontro tra De Gasperi e Pio XII, Carretto mantenne sempre un rapporto conflittuale con le gerarchie cattoliche per le sue posizioni anticonformiste (si schierò, ad esempio, a favore della legge sul divorzio); entrato nei Piccoli Fratelli del Vangelo di Charles de Foucauld, concluse la sua vita a Spello, trent’anni fa esatti: il 4 ottobre 1988.
Tra i suoi libri più celebri figurano Io, Francesco, rivoluzionaria lettura in chiave autobiografica della vita del santo di Assisi (pubblicato nel 1980) e Lettere dal deserto che racconta i dieci anni passati da eremita nel Sahara, tra il ’54 e il ’64.
Proprio questo libro è divenuto il cuore del nuovo film diretto e interpretato da Terence Hill, che rappresenta una vera e propria summa dell’opera e della vita dell’attore amerino e tedesco di origini, veneziano di nascita e americano di adozione.


Se il titolo richiama infatti quello di un celebre western interpretato a fianco di Henry Fonda, il deserto spagnolo è lo stesso dove Terence incontrò Bud sul set di Dio perdona, io no, la motocicletta richiama tanti successi degli anni ’80 (a cominciare da Poliziotto Superpiù, in cui era affiancato da un altro mostro sacro come Ernest Borgnine), mentre i paesaggi meravigliosi e il rapporto che si instaura tra i protagonisti ricorda Un passo dal cielo. Non mancano, ovviamente, le proverbiali scazzottate divenute un marchio di fabbrica della coppia Girotti-Pedersoli.
Nonostante i tanti richiami, però, Il mio nome è Thomas non assomiglia a niente ed è un film totalmente originale, assolutamente unico non solo nel panorama cinematografico e internazionale, ma anche nella stessa produzione registica di Terence Hill; un film folle, anticonformista, che sfugge ad ogni etichetta e ad ogni logica commerciale, capace di dosare poesia, spiritualità, romanticismo, avventura, comicità ed epica. Non a caso Terence se lo è dovuto produrre completamente da solo, senza alcun sostegno e anzi subendo un malcelato ostruzionismo.
Sabato 17 novembre il film verrà presentato a Terni, al festival Popoli e Religioni, in occasione della consegna a Terence Hill dell’Angelo alla carriera.
“Il mio nome è Thomas – racconta il regista nel bar di Amelia dove ci incontriamo – ha avuto una gestazione lunghissima. L’idea di fare qualcosa ispirato a Lettere del deserto è venuta vent’anni fa, quando mia moglie mi ha fatto conoscere quel libro”.
“Ad entusiasmarmi – continua – è stato soprattutto un capitolo, che mi piace definire piuttosto ‘sequenza’ perché è davvero cinematografico, e che mi sono portato dentro per vent’anni”.


Quando è venuta l’idea di farne un film?
“Stavo girando Don Matteo e mi dicevo che mi sarebbe piaciuto tanto tornare a fare cinema. Perché, con tutto il rispetto e la gratitudine che ho per la televisione e per la fiction, fare un film è un’altra cosa: è un modo di esprimersi diverso. Avevo voglia di fare un film di azione, con cose nuove che avevo sperimentato nella vita. Sai che faccio? – mi sono detto - Faccio un viaggio nel deserto come ha fatto Carretto, anche se non ci rimango dieci anni ma due mesi, e ci inserisco anche questo capitolo”.


Raccontare la storia di un uomo che va nel deserto a leggere un libro sembra davvero una follia.
“Nel film in realtà c’è molto movimento: è un viaggio fisico ma è anche un viaggio nell’anima, anche per questo rapporto profondo che si instaura tra il mio personaggio e la ragazza”.


Carretto ha cambiato il tuo modo di rapportarti con la religione?
“Sì: mi ha regalato l’entusiasmo per il cristianesimo. Prima avevo un’adesione alla fede cristiana, ma l’entusiasmo è una cosa più forte: è gioia, come dice il Vangelo. E devo ringraziare mia moglie, che conosce tutti i libri di Carretto e mi ha trasmesso questo entusiasmo”.


Questo film unisce un’anima spirituale al ritorno al western.
“Il western lo sognavo da quando ero bambino, e quando finalmente sono riuscito farlo è stato meraviglioso”.

 

Carretto è andato nel deserto dell’Algeria, tu nell’Almeria.
“Farlo nell’Almeria ha significato molto per me, perché è un luogo a cui sono legato. Certi luoghi, certi posti, certe atmosfere danno epicità al racconto e i film che mi vengono bene sono quelli che hanno un po’ di epicità, quindi mi piaceva l’idea del viaggio, dell’avventura, del deserto, la motocicletta”.


Epicità spirituale: quasi un ossimoro.
“Beh, non è la stessa cosa leggere Carretto nel deserto o leggerlo in un bar”.

 

Nel film parli dell’etimologia della parola “desiderio”, che significa “nostalgia delle stelle”.
“Quando giro Don Matteo mi porto sempre una busta piena di libri perché cerco cose interessanti da dire, cose dette con parole diverse da quelle a cui siamo abituati. Una volta ho trovato questa cosa e ho deciso di non utilizzarla per Don Matteo, ma di tenerla per un film”.


Il mio nome è Thomas è dedicato a Bud Spencer.
“Non è stata una cosa del tutto voluta, ma Bud è morto proprio mentre mi trovavo lì a girare, proprio nei luoghi dove ci eravamo conosciuti. Ricordo che durante le riprese mi ha telefonato il figlio dicendomi: ‘Mio papà se ne è andato in questo momento’. E in quel momento ho deciso di dedicargli il film”.

 

Nel film c’è uno scorpione che compare un paio di volte e che tu ti rifiuti di uccidere.
“Quando ha visto il film, il figlio mi ha detto: ‘Quello è Bud!’. Perché lui era nato sotto il segno dello Scorpione. Anche questa è stata una coincidenza non voluta, ma molto significativa”.


E’ vero che in tanti anni di amicizia non avete mai litigato?

“Sì, ma questo dipendeva anche dal nostro carattere. Tendenzialmente io non litigo con nessuno; non ho problemi a dire: hai ragione tu. E anche Bud era così. E amava ripeterlo, ogni volta che ci incontravamo: non abbiamo mai litigato! Non abbiamo mai litigato!”.

 

 

Arnaldo Casali

di Arnaldo CasaliGiornalista esperto di Spettacolo, Cultura, Religione.