Spettacolo

I buchi neri del grande regista. Federico “Fellini fine mai”

“Malesseri, voci e segnali indecifrabili” hanno sempre bloccato i film.

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Per quale ragione Federico Fellini non metteva quasi mai la parola fine al termine dei suoi film? Il film di Eugenio Cappuccio, Fellini Fine Mai, presentato in anteprima mondiale alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Venezia Classici, non gira intorno al problema: il sospetto che ciò costituisse una sorta di mantra contro l'appuntamento estremo è il punto di fuga di una esplorazione ininterrotta del mistero e della superstizione che chiunque abbia conosciuto il regista è in grado di attestare nel suo vissuto quotidiano.   Il film di Cappuccio - al quale ha collaborato come testimone e sceneggiatore anche chi scrive -  è una sorta di battistrada di diverse opere perlopiù documentarie nate con l'occasione di celebrare il centenario della sua nascita che ricorre il prossimo anno. Il film ha un tocco felice in grado di schivare sia la devozione monumentale nei confronti del regista più noto del cinema italiano del dopoguerra, sia l'accanimento filologico dello studioso. Piuttosto si affida, fellinianamente, alla rievocazione della memoria visto che Cappuccio ha conosciuto Fellini proprio a Rimini dove lui ha fatto le superiori e dove ha convinto sua madre, molto amica di Maddalena Fellini, sorella del regista, ad accettare di incontrarlo per confessargli il suo amore per il cinema e il suo sogno di riuscire a farlo. Cosa che inizierà proprio con lo stesso Fellini in quanto assistente in un paio dei suoi ultimi film.

 

La parte riminese è leggera, spensierata, divertente (con dei riminesi che confondono i film del maestro con quelli di altri), e così la raccolta di testimonianze incrociate per strada (la nipote Francesca, l'illustratore Geleng, Sergio Rubini (che impersonò lo stesso Fellini nel suo film L'intervista) ma lo attende un incontro più decisivo, quello con i veri fantasmi del suo cinema.

 

Quali sono? I suoi due film scritti, pensati, sognati e mai realizzati. Il viaggio di G. Mastorna (con 400 milioni di lire di scenografie messe in piedi dal produttore De Laurentiis e la lavorazione mai iniziata) e Viaggio a Tulum (basato sui libri esoterici dell'antropologo Castaneda in cui questi racconta le sue stagioni di apprendistato presso uno stregone messicano). Perchè Fellini non solo non finì, ma neanche attaccò questi due film, entrambi diventatiti delle graphic novel grazie a Milo Manara?

 

Sono proprio lui e Vincenzo Mollica, il giornalista del TG1, che mise in contatto il disegnatore e il regista, a ricostruire le vicende e anche il fitto mistero che le avvolge – nei confronti del quale Fellini mantenne sempre un atteggiamento, come dire, anfibio: da una parte era attratto dall'indecifrabilità di segnali e messaggi che esse sembravano generare (nel caso del Mastorna, una serie di malesseri anche gravi che lo affliggevano tutte le volte che si approssimava alle riprese, nel caso di Tulum, una sorprendente e incomprensibile cospirazione di telefonate di voci extrasensibili dalle quali tutta la preproduzione in America finì per essere guidata e manipolata).

 

Grazie a Cappuccio, per la prima volta ci sporgiamo sull'orlo di autentici buchi neri creativi ed esistenziali con i quali Fellini giocò con curiosità e terrore, tra la speranza di non finirne risucchiato e il timore che tutto si potesse risolvere in una misera burla. Il segreto del suo cinema, fatto spesso di notti, selve, nebbie, di simboli ciclopici (il Rex, la Testa della Venusia, il Corpo di Anita Ekberg nella fontana) e del  bisbiglio rauco e frantumato dell'aldilà sta spesso proprio in questa capacità di seguire il passo dell'enigma, senza fuggirne l'oscurità e senza distruggerlo svelandolo. 

Mario Sesti

di Mario SestiCritico e Festival Curator