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Isole australi e Polinesia francese: atolli ricchi di megattere, natura e legionari

Le isole scoperte da James Cook: Costose ma uniche!

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Il promontorio verde circondato dalla barriera corallina ci annuncia che siamo arrivati a Tubuai. L’Atr 42, partito tre ore prima da Papeete, fa un largo giro per mettersi in linea con la pista di atterraggio. Sopra un manto bianco di madrepora, la pista è così nera da sembrare una brutta cicatrice che costeggia il mare a pochi metri dalla fitta vegetazione: questo, però, ci permette di osservarla meglio in tutta la sua lunghezza. Lo skyline col suo picco assomiglia al dorso di uno squalo con la pinna affilata che esce dal mare.
L’aerostazione ha l’architettura dei faré polinesiani, ma senza le pareti con solo il tetto, accentuando nel passeggero il senso di remotezza.
L’uomo dalla pelle scura che ci viene incontro ha un portamento regale, fiero, coperto solo da un piccolo pareo che gli fascia i fianchi, mettendo in risalto il suo possente corpo lucido e senza sbavature di grasso, cosa che invece hanno quasi tutti i polinesiani. Alfonse è il discendente di quello che dovevano essere i suoi bellicosi antenati i quali cedettero l’isola a Christian Fletcher, venuto a cercare un posto dove nascondersi dopo l’ammutinamento del Bounty, dopo feroci combattimenti e grande spargimento di sangue.
Alfonse emana un’immagine di machismo e di efficienza. E’ campione di tutti gli sport acquatici: surf, immersione, canoa, vela…

Oltre ad Alfonse, nella piccola aerostazione c’è una piccola folla che si accalca guardando curiosa i pochi passeggeri non polinesiani che sono sbarcati e dando loro il benvenuto con baci e collane di fiori, come vuole la tradizione. Scoprirò più tardi che, ogni volta che arriva l’aereo da Papetee, loro vengono qui anche se non aspettano niente. Forse il contatto con il “grande uccello” li fa sentire meno isolati dal resto del mondo.

Tubuai e’ attraversata dalla linea che demarca il Tropico del Capricorno. Per arrivarci occorrono 26 ore di volo effettivo, macinare 21.000 chilometri da Roma e affrontare un fuso orario di meno 12 ore: si parte oggi e si arriva ieri. Un bel vantaggio ma raccontatelo ai vostri bioritmi che vengono sconvolti. Ma tant’è, per il paradiso si può anche affrontare qualche disagio.

Sull’isola ci sono solo poche pensioni e anche abbastanza modeste, ma non danno l’impressione da tropico perduto, quando si pensa a dei “nei” sparsi nell’Oceano Pacifico. Tubuai è il centro amministrativo dell’Arcipelago delle Australi, un fazzoletto di terra coperto da una folta vegetazione “mediterranea e alpina”. In certi punti sembra di essere in Svizzera o sulle Dolomiti per via delle foreste di alti abeti sulle pendici del “monte” Tait, alto ben 422metri.
Il mezzo piu’ usato dai 2000 abitanti per spostarsi sull’isola è la bicicletta o il cavallo che i tubuani cavalcano a pelo. Ed è pedalando sulla piccola route che costeggia la spiaggia che ho incontrato la professoressa francese che vive sull’isola da tre anni e insegna letteratura al collegio che ospita anche i ragazzi delle altre isole. “E’ stata bella” si dice di una donna che ancora emana un fascino sofisticato mentre pedala lentamente come se fosse su un boulevard parigino. Nel cestino della bicicletta spuntano le verdure fresche che il terreno dell’isola produce. La “Karen Blixen di Tubuai” ci racconta i pregi di queste popolazioni, orgogliose e ospitali, che, essendo fuori dalle pressioni che il business impone, vivono in armonia tra di loro e con i pochi turisti che vi si sono insediati. Come Donald Traves, uno stravagante americano che è lì dagli anni 60, un Beachcomber del mare, ora un “Gauguin” dei nostri tempi. Non dipinge, ma fotografa: ha fissato 40 anni di albe e tramonti e con tutto quello che c’è dentro, comprese le mutazioni ambientali create dall’uomo. E, come Gauguin, ha sposato una bellissima polinesiana di 20 anni che, però, non vuole parlare con gli stranieri, chissà perché.
Scortato sempre da Alfonse, che è uno storico oltre che un guerriero, arriviamo a Fort Georg, il punto dove nel 1789 gli ammutinati del Bounty trovarono rifugio: una baia che ti toglie il fiato per l’armonia dei colori creati dal mare e dalla vegetazione.

Il rispetto della legge (qui non ci sono tensioni sociali né semafori da rispettare..) è esercitato dalla Gendarmerie nella figura di Enrico, un ex legionario che ha dragato tutta l’Indocina e il Nord Africa, vestito come lo era il mitico John Wayne, ma senza la stella di sceriffo. E’ solo brigadiere, gira l’isola a cavallo, perché, dice, così arriva dappertutto: una faccia da simpatica canaglia che starebbe bene in un film noir, ma fuori dalla legge… La mattina viene a fare la petit-déjeuner alla pensione per avere notizie dell’Italia e per chiedere – pensate - di “Berlusconì”. La sua fama da tombeur de femmes è arrivata anche qui: e perché, se è tanto ricco, fa il presidente a tutto campo, anche del Milan? Lo lasciamo senza risposta.
Gli isolotti che circondano Tubuai assomigliano al paradiso. L’isola Mutù si raggiunge in dieci minuti di barca. Pochi farè ospitano alcune famiglie che vivono senza corrente elettrica, né antenne paraboliche, né quello che la civiltà dei consumi considera indispensabile. Vivono solo con quello che la generosa natura offre: frutta, pollame, pesce, in un contesto ambientale da capogiro tanto è bello. Una stupenda ragazza polinesiana che stava pescando le benitier o tridacne, come le chiamiamo noi, mi ha chiesto se le volevo assaggiare: seduta in acqua con un affilato e robusto coltello ha tolto il grosso mollusco dalla conchiglia, poi lo ha fatto a pezzettini (sarebbe impossibile mangiarlo intero) e irrorato di limone. Per incoraggiarmi, afferma che sono molto afrodisiache. Come rifiutare un test del genere: il gusto assomiglia ai nostri tartufi di mare, ma molto piu’ callose, ottime.

Se a Tubuai la vita scorre con i ritmi scanditi da musiche languide, a Rurutu è il ritmo dell’energico tamurè, che ne scandisce le sequenze. L’isola appare più selvaggia, anche se le caratteristiche generali sono le stesse. Appena scesi dall’aereo si nota un attivismo inconsueto per i polinesiani: la gente lavora nei campi che, senza alcuna barriera, iniziano accanto alla pista dell’aeroporto. In effetti, l’agricoltura è la principale ricchezza dell’isola, insieme all’artigianato. Rurutu, dal punto di vista turistico, non ha niente da offrire a coloro che vogliono comodità, bar, ristorantini, punti d’incontro per socializzare. Offre invece ciò che nessun altro posto al mondo possiede: un mare dove si può fare il bagno in compagnia delle balene, giocando con questi stupendi ed innocui mammiferi. Della famiglia dei cetacei, le megattere sono gli esemplari più grandi: raggiungono anche i 25 metri e pesano dalle 20 alle 25 tonnellate. I polinesiani, si sa, sono grandi navigatori ed è con piccoli gusci che ti portano a contatto con le balene così da poter fare snorkeling e vederle sott’acqua mentre si riposano sul fondo. Sono cosi enormi che sembrano sommergibili. Per gli appassionati del mondo sottomarino che hanno già scandagliato tutti i più emozionanti fondali, questa esperienza non ha confronto: la scarica di adrenalina che si prova quando si vanno a guardare a pochi metri di distanza e le si accarezzano sul muso è unica. L’importante è stare fuori dalla portata della coda perché il pericolo viene dai grandi colpi che la balena dà sull’acqua quando è contenta e vuole giocare. C’è stato un momento nel quale abbiamo avuto la fortuna di essere circondati da quattro esemplari che ci osservavano sbuffando: ho pensato a Giona che era stato ingoiato e poi sputato perché indigesto, chissà…

 



Ogni anno, da luglio a ottobre, ne arrivano a migliaia dall’Antartide per venire a partorire in questa parte di oceano e, chissà perché, solo intorno all’isola di Rurutu.
Verso il tramonto, le megattere si avvicinano fin sottocosta a due trecento metri dalla riva e i bambini si siedono sulla spiaggia per guardarle mentre giocano con salti acrobatici fuori dall’acqua emettendo suoni “umani”: uno spettacolo che nessun circo al mondo si può permettere di mettere in cartellone.
Yves Gentilhomme è un francese che vive sull’isola da 20 anni e ne è diventato il deus ex machina. Anche lui ex legionario, si è trasformato in guida e speleologo. Ci racconta che la conformazione geologica dell’isola è molto particolare: sembra che 12 milioni di anni fa l’isola sia sprofondata in fondo all’oceano per poi risalire per effetto di terremoti vulcanici, creando profonde caverne con stalattiti e stalagmiti. E’ pericolosissimo entrare in queste caverne perché senza una guida si rischia di perdersi e di non uscirne più.
A Rurutu vive anche una piccolissima colonia di italiani. Sono solo tre, ma non si frequentano, mi dice Gilberto, un perugino finito lì 30 anni fa con la moglie polinesiana. Produce otto tipi di formaggio con il latte delle capre che si è fatto arrivare dalla New Zeland. Formaggi che poi spedisce a Papeete, insieme a degli straordinari ravioli con la ricotta. Il venerdì, poi, fa la pizza nel forno a legna che si è costruito e che sembra piaccia molto ai 1900 polinesiani di Rurutu. Gli isolani sono molto spartani in fatto di cibo, ma, una volta alla settimana, il sabato pomeriggio, preparano l’elaborato pranzo tradizionale che poi mangeranno la domenica: dopo aver scavato una profonda buca e aver fatto ardere la legna fino a farla diventare brace, la coprono con foglie di banano e uno strato di sabbia. Avvolgono sempre nelle foglie di banano maiale, pollo, pesce e patate e lo depositano sul forno naturale che coprono con altre foglie mettendo sopra tutto una tela coperta di sabbia. Il cibo cuoce per più di 16/18 ore e sarà, appunto, pronto e gustato la domenica.

L’ultima isola visitata è Rapa Iti la più sperduta delle isole Australi. E’ la sorella più piccola della leggendaria Rapa Nui, o Isola di Pasqua, distante però migliaia di chilometri.
Rapa si erge solitaria tra le onde e sembra che sia stata messa lì per interrompere la monotonia dell’immensa distesa blu dell’Oceano Pacifico e per contrastarne i forti venti con i suoi monti alti fino a 600 metri .
Unico cordone ombelicale per rompere l’isolamento è il piccolo cargo Tuhee Pae che arriva per scaricare le merci e la posta per i 450 abitanti. Scendono anche pochi turisti che, come noi, cercano nuove emozioni nell’isola più selvaggia dell’Arcipelago delle Australi. Ma che Rapa non voglia intrusi lo si capisce subito. Ci sono solo poche case che affittano una modesta stanza per due persone e le rare barche da diporto che arrivano per rifornirsi possono fare solo soste di breve durata.
Non squilla il telefono a Rapa, come, peraltro, in tutte le isole Australi. Ma per quanto esse cerchino di rimanere isolate, nessun angolo del mondo sfugge ormai alle ferree leggi della comunicazione globale derivante dai satelliti. Nella sala che comprende hall, reception, ufficio, pranzo, sala TV, si trasmetteva infatti una partita di calcio che si stava disputando in Francia. Ma dietro l’angolo, ovvero in riva all’oceano e sotto un grande albero al riparo dal sole, si torna alle origini: delle bambine di tre, quattro anni, guidate da una ragazza, imparavano a muovere il corpo ondeggiando sinuose al suono di una chitarra e di un canto corale: sembrava una scena inventata ad Hollywood e organizzata dall’ente per il turismo.

Comproprietari dell’isola, i polinesiani vivono quasi tutti nel piccolo villaggio di Aurei, dove non manca niente: posta, chiesa, ambulatorio, scuola. Per mangiare basta allungare la mano e cogliere i frutti della terra. Aggiungete che sono abili pescatori e cacciatori … Dove però neanche loro “non si avventurano” è sulle creste vulcaniche che racchiudono ancora tanti segreti.

Jerry Bortolan

di Jerry BortolanReporter, giornalista di viaggio ed enogastronomico.